Teresa Basili Factory Asks

Teresa Basili

Il “Make-up”, una nuova forma espressiva

Una giovanissima make-up artist, Teresa. Nasce il 12 novembre del 1990. Inizia a studiare musica da parecchio piccina con il pianoforte. Tra amore e odio iniziali riesce a farselo amico fino ai 20 anni, lasciandolo poi per trasferirsi a Milano dopo aver frequentato il Liceo Artistico Musicale di Lucca, per iniziare gli studi di scenografia all’Accademia di Belle Arti a Brera. Dopo la laurea intraprende quello che sarà il suo futuro da make-up artist alla scuola di trucco BCM di Milano.

01. Come hai intrapreso il percorso artistico del make-up?

Fin da piccina mi dilettavo a colorare la faccia di mio fratello con le matite acquerellabili bagnate sputandoci su, ma finiva sempre a schiaffi. Ho iniziato frequentando il corso di scenografia all’accademia di Milano. Un giorno dall’aula accanto alla mia spunta una donna che aveva i capelli come Doc di Ritorno al Futuro, era un’insegnante. Chiese se ci fosse qualcuno disponibile a fare da modello per un ragazzo che doveva realizzare un trucco teatrale… : “vengo io!”. Così mi sono fatta impiastricciare la faccia e mi sono innamorata per la prima volta nella vita. Quando ho iniziato la scuola per truccatori ho incontrato di nuovo la donna con i capelli di Doc, è stata la mia insegnante di effetti speciali. Ho iniziato così.

TERESA BASILI make-up
Foto: Nicol P. Claroni
02. A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

Tutto. Qualsiasi cosa io veda, senta, tocchi o ascolti. Sono molto curiosa, questo mi aiuta. Quando lavoro per commissioni, che siano film o spettacoli teatrali, faccio mille ricerche per capire cosa vogliono e come arrivare al progetto finito. Quando lavoro per i miei progetti di make-up personali faccio la stessa cosa ma sentendomi molto più libera. Do sfogo a quello che penso perché è il mio progetto e posso scegliere ciò che voglio, dire e trasmettere cose molto più personali.

03. In quanto “artista” qual è la tua massima aspirazione?

Poter riuscire a creare, esprimere attraverso corpo e colori in totale libertà. E allo stesso tempo trasmettere sensazioni, di qualsiasi genere, agli altri.

TERESA BASILI make-up
Foto: Nicol P. Claroni
04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

Credo di si, nei miei progetti esiste sempre un tema che è quello del doppio. della specularità, bianco e nero. E bianco e nero siamo noi, un dualismo di cui non ci libereremo mai.

05. Che cosa vuol dire underground per te?

Underground è la creatività che non viene trasmessa attraverso i normali canali commerciali, è sperimentazione libera da ogni vincolo imposto.

Concept Foto di Nicol P. Claroni, Make up di Teresa Basili

Grazie Teresa per la tua disponibilità e la bella chiacchierata, a presto!

Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista
Links:

Sito Web di Teresa Basili


Edited by Roberta Ada Cherrycola www.instagram.com/ada.cherrycola

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    Factory Asks

    ELENA BRAVI & FRANCESCA PUCCI

    L’Arte come laboratorio per le nuove generazioni

    In questa puntata di Factory Asks vi presentiamo il lavoro di Elena e Francesca, due giovani artiste che hanno fatto della loro passione per l’arte un laboratorio di crescita per le nuove generazioni.

    Ciao! Mi chiamo Elena, 30 anni (a maggio ahimè 31!), laureata in storia dell’ arte all’università di Firenze. Dopo un’ esperienza in galleria mi sono avvicinata al mondo della didattica per bambini, sviluppando un laboratorio legato all’arte grazie ad alcune collaborazioni prima su Firenze poi con associazioni del territorio lucchese.

    Invece io sono Francesca Pucci, classe 1983. Mi sono diplomata alla scuola di fotografia APAB di Firenze. Collaboro con festival di cinema e riviste di musica e da circa un anno e mezzo gestisco un laboratorio artistico per bambini e ragazzi insieme ad Elena.

     Come nasce il tuo interesse per l’arte? C’è un momento che ricordi in particolare?

    Elena | Il mio interesse per l’arte nasce alle scuole superiori. Inizialmente i piani erano altri, ho fatto il liceo scientifico linguistico perchè volevo diventare interprete e girare il mondo, poi al terzo anno, grazie ad una professoressa di storia dell’arte, arriva la folgorazione. L’arte antica, il rinascimento, il ‘600, l ‘800 e le Avanguardie, Picasso. Musei, mostre, libri d’arte erano diventati la mia priorità! Finito il liceo non è stato difficile scegliere a quale facoltà iscrivermi.

    Francesca | Ero davvero piccolissima. Mi nutro di arte da sempre. Dalle elementari le materie artistiche erano le mie preferite e a 14 anni ho scelto di frequentare l’istituto d’arte ad occhi chiusi. Da ”grande” la passione artistica è spaziata nel cinema e soprattutto nella fotografia. Il percorso è stato lungo e tortuoso, ma è stato ed è ancora bello,  sperimentare, sbagliare e imparare. Tanto.

    Che esperienza hai nel campo culturale?

    Elena | Le mie esperienze più importanti fino a questo momento in ambito culturale riguardano i bambini e il laboratorio d’arte a loro dedicato. Citerei i laboratori di due anni fa durante il festival Cartasia. Lì ho avuto carta bianca per progettare visite giudate e laboratori creativi. Più recentemente ho avuto modo, insieme a Francesca, di portare alla scuola primaria di Capannori dei laboratori di avviamento alla fotografia, ideati e progettati interamente da noi.

    Francesca | Come fotografa mi occupo di fotografia di musica e cinema. E’ impossibile per me non pensare alla fusione di queste arti tra di loro. Nell’ultimo periodo le mie esperienze in ambito culturale hanno spostato l’attenzione anche sui bambini lavorando insieme a Elena.

    Quali sono i maggiori ostacoli che hai incontrato (o che incontri) nella tua realizzazione professionale?

    Elena | Gli ostacoli più grandi riguardano soprattutto la resistenza riguardo l’arte contemporanea, che spesso non viene capita o è ritenuta non adatta ai bambini. In una città piccola come Lucca poi è difficile farsi strada tra associazioni o realtà già ben radicate nel territorio. Devo dire però che in alcuni casi ho trovato molta collaborazione e interesse e sono riuscita a concretizzare alcuni miei progetti.

    Francesca | La diffidenza dei “grandi”.

    Quali son state le più grandi soddisfazioni fino ad ora?

    Elena | Credo che la più grande soddisfazione sia vedere i bambini incuriositi e interessati a un linguaggio artistico nuovo per loro. Appassionarli all’arte contemporanea è il mio obiettivo principale e loro mi ripagano dieci volte tanto!

    Francesca | Gli occhi incuriositi dei bambini. Ma anche le loro risposte inaspettate. I bambini sono degli osservatori e dei creatori di immagini puri!

    Laboratorio Artistico
    Copyright Elena Bravi & Francesca Pucci
    A cosa stai lavorando al momento?

    Elena | In questo momento sto portando avanti un progetto di fotografia insieme a Francesca. Dopo l’esperienza alla primaria di Capannori vorremmo coinvolgere i ragazzi delle medie e avvicinarli alle tecniche e al linguaggio fotografico. Personalmente sto lavorando con una cooperativa che gestisce la didattica del Centro Pecci e altri musei tra Prato, Pistoia, Pescia e Montecatini.

    Francesca | Come ha già detto Elena, vorremmo avvicinare sempre più bambini e ragazzi al mondo della fotografia e dell’arte in generale, riuscire a nostro modo ad educarli a leggere le immagini che ci circondano e  quelle che stanno nella loro immaginazione.

    Perché hai scelto di lavorare con i bambini/adolescenti?

    Elena | I bambini sono ad oggi i miei unici interlocutori per quanto riguarda l’arte! Sono curiosi, senza pregiudizi, senza schemi, sinceri. E arrivano al cuore delle cose. Sono capaci di capire Pollock o Fontana meglio di qualsiasi critico d’arte!

    Francesca | Perché sono puri. Perché dovremmo re-imparare anche noi a vivere il mondo attraverso i loro occhi. E a raccontare storie attraverso le loro voci.

    Come vedi il panorama artistico italiano? Quali i punti di forza, quali di debolezza?

    Elena | Lo vedo un po’ stagnante, non c’è ancora quella spinta decisiva, non si investe a dovere, l’arte è ancora argomento di serie B. Credo che le cose più interessanti siano al di fuori dei circuiti ufficiali, penso alla street art ad esempio. Il mondo dell’arte è sempre più eterogeneo, così come i mezzi espressivi. Per quanto riguarda l’arte italiana, forse sta perdendo un po’ quella capacità di saper parlare del proprio tempo, di essere specchio della società.

    Francesca | Sottovalutato, purtroppo!

    Grazie Francesca, grazie Elena!

    Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista
    Links:

    Lucca Museum

    Lab4Kids Lucca

    Francesca Pucci bio


    Edited by Nicol P. Claroni

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      Stories

      FRACTAL ART ØØØØ

      The story of this young Italian artist based in London proves that supporting young talents it’s always worth it.

      Matteo Zamagni is a 23 years old from Rimini and he was chosen from the Barbican Centre to be part of the Fish Island Labs project. This art laboratory located in Hackney Wick (London) was born from the joint forces of the renowned cultural centre – The Barbican – and the social enterprise The Trampery. The project’s core concept aimed at putting together fifty young artists in a iconic studio space with the objective of exploring the many artistic possibilities created by the mix of arts and new technological tools, ranging from sculpture to digital art. After 12 months of hard work, the Fish Island Labs’ artists have summed the ethos of their artistic and technological experimentation in an exhibition held in August at the Barbican Centre, Interfaces.

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      Undoubtedly, Matteo’s installation Nature Abstraction was the highlight of the exhibition, attracting the attention of enthusiasts and experts. In the wide landscape of media art, he has chosen a very niche avant-garde, virtual reality. By exploring the mathematics of fractals and complex 3D graphic techniques Matteo successfully managed to turn the mathematical representation of organic forms into visual art. I had already seen some of Matteo’s previous projects, but my curiosity grew even more when I arrive at the exhibition and I saw the long and patient line of people waiting to try the Oculus Rift. I was completely blown away by his installation and I realised the real extent of fractal art and the artistic experience it can recreate.

      I met Matteo to find out more about how he started his artistic career, which technologies he uses and what are his future plans.

      Tell us about your experience in the Fish Island Lab.
      Sharing such a space with artists with similar interests to mine has been absolutely incredible. Even though, each individual artist is a blend of interdisciplinary skills ranging from shadow puppetry, sculpture, data visualisation, fashion and fine art, there was always something to learn from each other. Moreover the Lab hosted many workshops, collaborations and events, making it a great opportunity for us all.

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      What about your installation Nature Abstraction for the Barbican Centre exhibition?
      Interfaces was undoubtedly one of the most constructive and exciting experiences of my life so far.  After a long time and hard work it was amazing to see my installation Nature Abstraction complete. When something starts from an abstract idea, making it real it’s an indescribable feeling. And it was even more exciting to see the reaction of the public walking into the cube and trying the Oculus Rift. In fact, the installation is designed in order to recreate a contemplative environment by using a cube whose faces are projected with images of organic forms filmed through a microscope; these are merged with analog visual effects (such as refraction and reflection, or other physical properties of light) and then filmed again. In this way, the viewer is invited to enter the cube, wear the Oculus Rift and explore a surreal 3D world created mathematically.
      In my opinion, art exceeds its limits more than ever in this new digital era. New technologies facilitate the multisensory interaction of the observer, allowing the artist to fully express himself.

      Why did you choose virtual reality and the mathematics of fractals ?
      With my installation Nature to Abstraction I wanted to create an environment in which the viewer could ” switch off” for 10 minutes and enter a surreal world made up of 3D fractals. Essentially these are a 3D representation of mathematical formulas that visually lead back to biological and architectural forms. The idea of using the Oculus Rift along with other electronic equipment has been very useful to amplify the experience for the observer. In fact by stimulating sight and hearing it is possible to almost induce the audience  in a state of trance.

      What technologies do you use?
      The tools always vary from project to project. Many softwares are available online for what concerns video editing, special effects, 3D, realtime graphics, photo-scanning etc. In addition, there are auditory sensors that detect audio frequencies or other types like the Kinect or the Leap Motion that trace back the body movements through infrared sensors. Some of these tools are relatively cheap and they offer endless possibilities. With regards to my work, the abstract idea always comes first. Then I look for the tools to develop and implement my idea in the physical world. I am currently exploring many 3D realtime and offline softwares such as Cinema4D and Houdini (also used for Visual FX in Hollywood productions), specific softwares for 3D fractals, photogrammetry and other softwares for vj-ing and projection mapping.

      How would you define the artistic scene in which your work fits into?
      From my point of view: it’s FANTASTIC.
      It’s a digital movement, born from the internet and from the disclosure of artistic practices online. There is a huge online network of media artists gathered discussing and sharing topics of interest.

      What are you working on at the moment and what are your future plans?
      I have lots of projects going on at the moment. I’m developing a second installation which aims recreating an OBE (Out of Body Experience) literally projecting the audience elsewhere. I’m still in the initial stage and it will take at least a year to develop properly. Moreover I’m trying to put together an online collective of digital artists which will consist of a platform where they’ll be able to share ideas, collaborate and express concepts in relation to astral worlds and the relationship between science and spirituality, a dear topic to many artists around the world.

       

      |  Celine  |  The Factory  |

      Factory Asks

      FACTORY ASKS 0015 : C.A.C.C.A.

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      Nome progetto 0015: C.A.C.C.A. – Cose A Caso Con Attenzione

      BIO

      Siamo 5 ragazzi della provincia di Parma: Stefani è curatrice, Matteo artista, Francesco graphic designer e (all’occasione) giardiniere, Giacomo è artista anche lui e io, Nicola, studio antropologia. Siamo un po’ sparsi per l’Italia e C.A.C.C.A. è anche una buona occasione per tenerci legati tra di noi.

      01. Come e da dove è nata l’idea di fondare la vostra rivista?

      L’idea è nata a un film festival: avevamo appena visto un cortometraggio sulla storia di una fanzine, abbiamo fatto mente locale e ci siamo resi conto che frequentavamo le persone giuste per fare qualcosa di simile anche noi. Giacomo è un grande illustratore e aveva già partecipato a una fanzine bolognese, Francesco aveva la passione per l’editoria e io quella per la scrittura. Abbiamo cominciato in tre ma dopo poco si sono aggiunti anche Matteo e Stefani, che hanno permesso che la cosa potesse diventare un po’ più seria.

      02. Vi siete ispirati a qualche magazine già esistente? O in generale cosa vi guida nelle vostre scelte editoriali?

      Direi che per il momento le scelte editoriali sono state poche: ci siamo limitati a decidere il “format” all’inizio, dopodiché ogni numero nasce da idee condivise con i vari collaboratori (e non l’avevo ancora detto, ma tutti possono diventare collaboratori di C.A.C.C.A., basta scriverci su facebook!) e per noi della redazione si tratta soltanto di fare una selezione dei lavori che potranno trovare spazio sul numero che stiamo curando e di impostare l’impaginazione.

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      03. Come finanziate la stampa dei vostri numeri e quali tecniche di stampa usate?

      Abbiamo un amico tipografo che ci ha letteralmente salvati; si è appassionato alla rivista e ci permette di avere stampe di alta qualità a prezzi accessibili per una realtà piccola come la nostra.

      04. Qual è il messaggio principale che vorreste comunicare tramite la vostra zine?

      Noi cerchiamo di dare spazio a persone che sappiano fare qualcosa di bello – qualunque cosa possa voler dire. La sfida è quella di stimolare persone, che in parte sono nostri amici e in parte perfetti sconosciuti, a produrre qualcosa di nuovo ogni volta e a dare un’interpretazione interessante della parola chiave del numero.

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      05. Che cosa vuol dire underground per voi?

      Per noi underground vuole dire essenzialmente fare un po’ quello che vogliamo: pochi vincoli editoriali, grande libertà e un lavoro che rimane più sul versante dell’artigianato che su quello industriale.

      06. Quanto sono importanti secondo voi occasioni come il festival per promuovere i giovani creativi locali e cos’altro vorreste che venisse fatto in questo senso?

      Sono indubbiamente occasioni molto importanti. Soprattutto all’inizio non è facile trovare un proprio spazio, e quando capitano eventi di questo genere è bello trovarsi tra persone che fanno la stessa cosa, pur abitando magari a centinaia di chilometri di distanza. Ci si scopre, alla fine, sempre sulla stessa barca.

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      | The Factory | C.A.C.C.A. |

      “Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

      Factory Asks

      FACTORY ASKS 0013 : FRANCESCA PUCCI

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      Nome artista 0013: Francesca Pucci

      BIO

      Francesca un po’ per scelta, un po’ per abitudine, nata nel freddo gennaio del 1983 e dove per usi e costumi sono rimasta. Da sempre innamorata dell’arte in tutte le sue forme, colleziono immagini e suoni, pane quotidiano in un mondo immaginario dal sapore a metà fra ”Dylan Dog” e ”Pretty in Pink”. Diplomata alla scuola di fotografia APAB a Firenze qualche anno fa, adesso collaboro con festival di cinema e riviste di musica. Inoltre gestisco laboratori artistici per bambini e ragazzi e mi piace farli provare a colorare non solo con i pennarelli, ma anche con quella polvere magica che è la fotografia.

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      01. Come hai intrapreso questo percorso artistico?

      Io da piccola preferivo colorare con i pennarelli. Coloravo tantissimo. E non doveva disturbarmi nessuno. Nemmeno papà, con quella macchina fotografica gigante. Da perfetto fotografo amatoriale mi invitava a posare troppo spesso per lui e io non sopportavo l’idea di starmene impalata. Poi qualcosa è cambiato: mi sono accorta di stare dalla parte sbagliata dell’obbiettivo. È successo che l’amore, i viaggi e soprattutto la musica mi hanno portato ad aver bisogno di documentare tutto quando questi non erano con me, inscatolare le emozioni per non perderle mai. E per saperle raccontare nel tempo.

      02. A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

      Senza dubbio la musica e tutto quello che la circonda sono il motore del mio lavoro artistico. Con lei tutti quegli artisti che hanno saputo raccontarla in maniera eccellente, che hanno portato le atmosfere dei backstage e dei palchi a portata di occhi. Fra gli altri A. Leibniz, P. Smith, A. Corbijn, R. Mapplethorpe, G. Harari, L. Ghirri.

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      03. In quanto “artista” qual’è la tua massima aspirazione?

      Regalare storie. Da vedere, da ascoltare, da raccontare.

      04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

      Attraverso la fotografia provo a scrivere storie musicate, forse una sottospecie di canzoni. Ho sempre voluto fare musica,ma non sono mai riuscita a salire su un palco. Con la fotografia ho trovato il modo di suonare , di rappresentare a mio modo la musica, di cantare con la luce. Un chiaro esempio è ”Sunday”, un mio progetto che nasce dall’esigenza di rappresentare la musica, così ho provato ad illustrare canzoni che raccontano di domeniche diverse, canzoni ascoltate oltre la sonorità e oltre le parole, descritte per quello che ti lasciano, per l’emozione che può diventare immagine. Ho riproposto ipotetiche copertine dei singoli da me scelti: con esse si ha un impatto visivo, la copertina veste la musica, diventa mezzo di comunicazione.

      05. Che cosa vuol dire underground per te?

      Sperimentare. Sempre innamorati di quello che stiamo facendo.

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      |  The Factory | Francesca Pucci  |

      “Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

      Factory Asks

      FACTORY ASKS 0009: DAVIDE BALDUZZI

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      Nome Artista 0009: Davide Balduzzi

      BIO

      Mi chiamo Davide. Sono nato a Bergamo il 9 ottobre 1989 da madre napoletana e padre bergamasco. Ho vissuto dai 3 ai 6 anni nella Pampa argentina, tra gauchos e cavalli e ho ripreso il mio sentiero scolastico in Italia, a Bergamo.
      Il 6 Ottobre 2014 io e la mia fidanzata, decidemmo di partire per l’estero.
      La prima meta fu l’Australia, comprammo un camper, e per 8 mesi riuscimmo ad abbinare il viaggio al lavoro.
      In seguito, iniziammo un lungo viaggio durato 4 mesi nel sud est asiatico, visitando molte isole dell’ Indonesia con i suoi vulcani e l’isola di Komodo; la penisola malese; l’ immensa foresta pluviale con i suoi animali selvaggi nel Borneo malese, passando poi per Singapore (la Svizzera d’oriente) e finendo nella vecchia Indocina: Laos, Cambogia, Vietnam e Thailandia con le innumerevoli risaie, cascate, templi e le affascinanti minoranze etniche.
      Le modalità erano: zaino in spalla, street food, ostelli economici, ospiti da persone, ampio sorriso, cuore aperto alla vita e alla gente.
      I mezzi erano: aerei, treni, navi e moltissime ore di pullman.

      Passo alla prima domanda…

      01. Come hai intrapreso il tuo percorso artistico?

      Sebbene i miei studi non abbiano nulla a che vedere con l’arte, ho ricevuto influenze artistiche dai miei genitori: scultura, pittura, musica e fotografia.
      Ho provato a dipingere, suonare la chitarra, il basso elettrico e le percussioni ma quando mio padre mi regalò la sua vecchia macchina fotografica analogica mi si aprì un mondo nuovo, un altro modo di vedere quello che mi circondava, posso dire.. uno stile di vita diverso da quello a cui ero abituato.
      Notai da subito la compatibilità che aveva questo tipo d’arte visiva con il mio carattere, e la approfondii.

      02.  A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

      La creatività può essere un attitudine innata o semplicemente un osservare, analizzare e studiare, per rielaborare a proprio piacimento. Io faccio questo, studio le fotografie dei grandi fotografi o opere dei grandi pittori, metto tutto in un “cassettino” pronto a ripescarne il contenuto al momento del bisogno mischiandolo sempre al gusto personale ovviamente.

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      03.  In quanto “artista” qual è la tua massima aspirazione?

      Sebbene con l’avvento di internet e delle milioni fotocamere in circolazione possiamo comodamente vedere e conoscere realtà sociali differenti dalla nostra, tengo comunque a dare il mio contributo con l’offrire la mia visione delle cose. Tornando alla domanda..La mia massima aspirazione è continuare ad avere energia per viaggiare, per scoprire/scoprirmi ed emozionarmi, riuscendo allo stesso tempo a trasmettere tutto questo a chi osserva i miei lavori.

      04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

      C’è chi scopre il proprio stile da subito, chi lo trova dopo anni di ricerca. Io ci sto lavorando, mi piacerebbe molto se qualcuno potesse vedere le mie fotografie e riconoscere il mio occhio, il mio stile, ma questo non è una mia priorità. Penso solo ad impegnarmi per creare un collegamento diretto con la mia sensibilità e la mia attrezzatura. Il messaggio legato ai miei lavori rispecchia quello che la scena mi trasmette in quel preciso momento. Se riesco a ritrasmettere le emozioni da me provate, mi posso considerare soddisfatto.

      05. Che cosa vuol dire underground per te?

      Un movimento che vive e si sviluppa parallelamente alla cultura di massa.

      06. Che progetto hai portato al festival e cosa ha significato per te?

      Al festival ho portato una piccola raccolta del mio archivio fotografico scattato nel mio ultimo viaggio nel Sud-est Asiatico.

      davidebalduzzifestivalL’allestimento di Davide al Bastione San Gallo per il PUM Factory Fest

      07. Quanto sono importanti secondo te occasioni come il festival per promuovere i giovani creativi locali e cos’altro vorresti che venisse fatto in questo senso?

      Complimenti e critiche sono entrambi importanti nella formazione artistica, ed è per questo che occasioni come il festival sono preziose, proprio perché danno la possibilità di avere contatto con il pubblico.
      Sarebbe bello poter creare una rivista dedicata ai giovani emergenti.

      | The Factory | Davide Balduzzi |

      “Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

      Matteo Zamagni Archivio

      Matteo Zamagni

      Music, Art, Dance in underground urban environments – m.a.d.

      Arte Frattale ØØØØ

      La storia di Matteo Zamagni, media artist italiano residente a Londra, è la riprova che quando si investe in giovani talenti non si fa mai cosa sbagliata

      Matteo ha 23 anni, è nato Rimini ed è uno tra i 50 artisti scelti dal Barbican Centre per far parte del Fish Island Labs. Questo laboratorio artistico situato ad Hackney Wick, Londra, è nato dal connubio di forze tra il rinomato centro di produzione culturale e l’impresa sociale The Trampery. Il progetto offre uno spazio di lavoro e incontro ad artisti emergenti che hanno l’obiettivo di esplorare le infinite possibilità artistiche create dall’unione di arte e tecnologia, spaziando dalla scultura, al film editing, alla digital art.

      All’interno del Fish Island Lab, Matteo ha scelto forse l’avanguardia artistica tra le più di nicchia all’interno del panorama delle arti multimediali: la realtà virtuale. Esplorando la matematica dei frattali e le più complesse tecniche di grafica 3D, Matteo è riuscito a trasformare in arte visuale la rappresentazione matematica di forme biologiche e naturali. Dopo 12 mesi di duro lavoro, gli artisti del Fish Island Lab hanno riassunto l’ethos della loro sperimentazione artistica e tecnologica nella mostra Interfaces, tenutasi nel prestigioso Barbican Centre. 

      Fin da subito l’installazione Nature Abstraction, si è rivelata il fiore all’occhiello dell’esibizione, attirando l’attenzione di curiosi ed esperti.

      Vedere la lunga e paziente fila di persone in attesa di abbandonarsi per qualche minuto alle meraviglie della realtà virtuale, ha suscitato in me ancora più interesse e curiosità nel lavoro di Matteo. Ma solo dopo aver indossato l’Oculus Rift ed essermi lasciata trasportare (perdendo l’equilibrio svariate volte) in un mondo altro, astratto, composto da forme aliene ma allo stesso tempo familiari, ho capito la vera portata dell’arte frattale e dell’esperienza artistica a 360° che essa può ricreare.

      Ho incontrato Matteo per farmi raccontare com’è iniziato il suo percorso artistico, quali tecnologie utilizza e quali sono i suoi progetti futuri. Parlaci della tua esperienza all’interno del Fish Island Lab.

      Condividere uno spazio con artisti dai simili interessi è stato incredibile. Abbiamo creato uno spazio di discussione molto interessante; per non parlare dei workshop, gli eventi e la visibilità che questa opportunità ha portato ad ognuno di noi.

      Che ci dici della tua installazione Nature Abstraction per la mostra al Barbican Centre?

      Interfaces è stata senza dubbio una delle esperienze più costruttive ed eccitanti che abbia mai vissuto fino ad ora. Ha reso possibile la creazione di una miriade di progetti sviluppati da un gruppo di artisti emergenti il cui scopo è esplorare la relazione tra arte, tecnologia e interazione con il pubblico, che non è più un osservatore “passivo” ma diventa parte integrante del processo artistico.

      su Nature Abstraction

      Dopo un lungo periodo di produzione è stato incredibile vedere la mia installazione Nature Abstraction completa. Essendo un processo che parte da un’idea estremamente astratta, renderla concreta è una sensazione indescrivibile. E ancora più eccitante è stato osservare le reazioni del pubblico che entrava nel cubo luminoso e provava l’Oculus Rift. 

      Di fatti l’installazione è progettata in modo da ricreare un ambiente astratto utilizzando una struttura a cubo sulle cui facce sono proiettati video di composti organici e biologici filmati al microscopio; a questi vengono uniti effetti visivi analogici (come rifrazione e riflessione, o altre proprietà fisiche della luce) che tramite l’utilizzo di un proiettore come sorgente vengono poi filmati nuovamente dalla videocamera. In questo modo l’osservatore è invitato ad entrare all’interno del cubo e ad indossare l’Oculus Rift per lasciarsi trasportare in mondi 3D surreali creati matematicamente.

      Secondo me l’arte in questa nuova era digitale ha più che mai superato i suoi limiti. L’utilizzo di nuove tecnologie che facilitano l’interazione multi-sensoriale dell’osservatore permette all’artista di esprimersi pienamente a diversi livelli di significato. Ed e’ per questa ragione, maggiormente, che credo di essere entrato in questo campo.

      Perché hai scelto la realtà virtuale e la matematica dei frattali?

      Per Nature Abstraction volevo creare un ambiente in cui l’osservatore potesse “staccare la spina” per 10 minuti ed entrare in un mondo surreale composto da frattali 3D. Essenzialmente formule matematiche che riconducono visivamente a forme biologiche e architettoniche, in modo tale da aprire un varco sull’idea di una struttura invisibile che compone la realtà che viviamo ogni giorno. L’idea di usare Oculus Rift insieme ad altri apparecchi elettronici è servito ad amplificare l’esperienza per l’osservatore e renderlo parte integrante  dell’artwork in sé, stimolando sensi come vista e udito fino ad illudere la mente di trovarsi altrove. 

      Quali sono le tecnologie che usi principalmente?

      Gli strumenti variano sempre da progetto a progetto. Molti software sono disponibili online per quanto riguarda video editing, special effects, 3D, realtime graphics, photo-scanning ecc. Inoltre ci sono sensori di tipo uditivo che individuano determinate frequenze audio presenti nell’ambiente, oppure il Kinect o il Leap Motion che tracciano il movimento del corpo tramite sensori a raggi infrarossi. Alcuni di questi strumenti sono relativamente economici e già con essi si hanno infinite possibilità. Ma nel mio caso l’idea astratta è quella che nasce prima di tutto, dopodiché cerco gli strumenti adatti per svilupparla e realizzarla nel mondo fisico. 

      Attualmente sto esplorando molti softwares 3D realtime e offline come Cinema4D e Houdini (utilizzato per il Visual FX anche in produzioni holliwoodiane), softwares specifici per frattali 3D, ed altri per vj-ing e projection mapping. Durante il mio percorso ho sempre notato una continua evoluzione nel modo in cui creo nuovi progetti. Credo sia dovuto al fatto che mi piace scoprire e imparare ad utilizzare nuovi strumenti per poi combinarli insieme in lavori futuri.

      Come definisci la scena artistica in cui si inserisce il tuo lavoro?

      Dal mio punto di vista : FANTASTICA.
      Essendo un movimento digitale, nasce in primis da internet e dalla divulgazione di tante pratiche artistiche online. C’è un intero network di digital artists da tutto il mondo online radunati in vari gruppi, forum e piattaforme che discutono e condividono argomenti d’interesse. E’ così che ho iniziato e ho avuto la fortuna di incontrare di persona alcuni degli artisti da cui ho tratto più ispirazione.

      Su cosa stai lavorando al momento e quali sono i tuoi progetti futuri?

      Ho un po’ di progetti su cui sto lavorando al momento, sia di breve che lungo termine. Sto sviluppando una seconda installazione in cui lo scopo sarà quello di ricreare una esperienza extracorporea, stimolando più sensi possibile in modo da indurre la mente a pensare di essere altrove. Sono ancora nella fase iniziale di sviluppo e penso che ci vorrà almeno un anno per la realizzazione. 

      Inoltre sto cercando di mettere insieme un collettivo online di digital artists. Sarà una piattaforma dove poter condividere idee, collaborare, ed esprimere concetti in relazione a mondi astrali e alla relazione tra scienza e spiritualità, un tema particolarmente caro a molti artisti sparsi nel mondo. Credo che questo movimento nasca da una necessità di condividere idee ed esprimersi attraverso l’arte infusa nella tecnologia.


      Links:

      Vimeo channel

      Wired interview

      Anisegallery

      Times Square Arts


      Edited by Celine Angbeletchy

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        Factory Asks

        FACTORY ASKS 0008: RICCARDO BONUCCELLI

        askthepixel_faithNome artista 0008: Riccardo Bonuccelli

        BIO

        Fotografo e retoucher professionista Adobe Certified Expert. Riccardo è nato il primo gennaio del 1977, ha vissuto a Torino, Lucca, Bruxelles e nuovamente Lucca. Si laurea in informatica e coltiva un lunga esperienza di consulenza in grandi aziende internazionali. Da sempre amante dell’arte, nel 2009 decide che la fotografia sarebbe stata la sua professione e nel 2011 dà vita alla sua attività, askthepixel.net. Da allora fornisce servizi fotografici e di formazione, specializzandosi in ritratto, fotografia urbana e di architettura e in compositing artistico. Come insegnante ha lavorato con aziende locali e internazionali, agenzie di formazione, associazioni culturali e di settore e ultimamente con il liceo artistico di Lucca.

        01. Come hai intrapreso il tuo percorso artistico?

        Con una solida base tecnica alle spalle e da sempre incuriosito e affascinato dal forte potenziale comunicativo subliminale delle immagini, ho cominciato a studiare il valore simbolico dei colori e delle forme contenuti nella collezione dei Tarocchi di Marsiglia. Le figure riprodotte su queste carte rappresentano la sintesi della simbologia occidentale, che dal tardo medioevo valgono ancora oggi e che funzionano alla perfezione applicate a qualsiasi medium visivo. Utilizzarle è estremamente divertente e da là il percorso ha preso vita sua e non si è mai arrestato.

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        02. A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

        Ho qualche fotografo a cui faccio riferimento quando cerco ispirazione estetica ma il loro stile può anche non trasparire nei miei scatti, perché dall’ispirazione alla produzione il processo ha già alterato i tratti distintivi di questi autori. Potrei citare Sarah Moon per i ritratti e Gabriele Basilico per la fotografia urbana, ma la lista sarebbe lunghissima. L’ispirazione tematica invece la trovo nella lettura: nel tempo, passando di libro in libro – sempre seguendo il tema su cui vorrei lavorare – si formano collegamenti che mi portano alle soluzioni visive che finiranno nelle mie foto.

        03. In quanto artista qual è la tua massima aspirazione?

        Essere fonte di ispirazione. Non avrebbe senso creare arte se non ne generasse di nuova a sua volta, sarebbe vana o al massimo superflua.

        04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

        Sì, è l’invito a guardare oltre il primo velo, a provare a far parlare le immagini, a renderle vive.

        05. Che cosa vuol dire underground per te?

        In ambito artistico “Underground” è l’humous culturale che prepara la società ad accettare la prossima espressione estetica e concettuale, magari denigrata o considerata acerba ma che di fatto intimorisce perché mina l’attuale equilibrio o perché è semplicemente non compresa.askthepixel_balance

        06. Che progetto hai portato al festival e cosa ha significato per te?

        Il progetto che ho portato mi ha fatto riflettere più di quanto mi aspettassi su quanto profondo sia il tema affrontato, lo scattare fotografie da un dispositivo mobile. Quando sono apparse le prime fotocamere “embedded” nei telefoni cellulari già da tempo i sensori digitali avevano sostituito le pellicole nella maggior parte degli apparecchi di ripresa. Ma questo cambiamento ha aggiunto un ulteriore grado di astrazione dalla realtà: da quel giorno possiamo compiere un’azione che riguarda l’ambito visivo (fotografare) con uno strumento che abbiamo sempre usato per parlare e ascoltare (il telefono). L’immagine diventa anch’essa parte della conversazione (“embedded” anche loro) e fa parte integrante del suo senso: una frase non è più totalmente comprensibile senza una emoticon come una foto da sola non basta a definire un concetto. Si può definire una “fotografia aumentata”.

        07. Quanto sono importanti secondo te occasioni come il festival per promuovere i giovani creativi locali e cos’altro vorresti che venisse fatto in questo senso?

        Questi eventi sono fondamentali per la crescita della società. É molto raro che qualcuno si fermi a riflettere su ciò che ha davanti a sè quotidianamente o che esprima un concetto proprio, originale. Questa sorta di apatia, di inerzia spirituale, comunicativa ed espressiva deve essere controbilanciata da una risposta genuina di analisi creativa della realtà attraverso gli occhi e le mani di chiunque ne senta un onesto bisogno. L’arte si muove per osmosi, e bisogna respirarla perché passi da uomo a uomo, da generazione a generazione.

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        |  The Factory | Riccardo Bonuccelli  |

        “Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

         

         

        Art novels and stories

        Underground Iran

        Giovani, musica, cultura e libertà nell’Iran contemporaneo

        L’Iran è un paese del quale in Italia si sa poco o niente.

        Luoghi comuni e stereotipi ci fanno produrre una versione fasulla e semplificata della realtà, in cui tutto è bianco o nero e in cui ci sono paesi da visitare ed esplorare ed altri che non è neanche possibile menzionare.

        E quando il terrore mediatico è al suo picco più alto, è ancora più difficile pensare di poter far luce sugli aspetti più umani e positivi di culture tanto lontane e diverse dalla nostra.

        Nonostante ciò, ho voluto provarci lo stesso, ho incontrato e intervistato Giulia Frigieri, fotografa laureata in antropologia e media alla Goldsmiths University di Londra, che nel settembre 2014 ha fatto un lungo e affascinante viaggio in Iran.

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        Foto tratte dal reportage Sar Zamin a cura di Giulia Frigieri; Copyright Giulia Frigieri
        Parlaci del tuo viaggio in Iran. Perché hai sentito il bisogno di partire da sola per un avventura così particolare?

        Sono partita dopo esser stata in Marocco e in Libano. Visitare questi paesi ha fatto crescere in me il bisogno di esplorare altri paesi orientali e di conoscere più da vicino il mondo arabo. Sapevo che l’estate seguente sarei andata in Turchia con un’amica e così ho deciso che avrei continuato il mio viaggio spingendomi sempre di più nel Medio Oriente. All’inizio volevo andare in Armenia. Ovviamente in Siria non potevo andare, in Iraq neppure.

        Arrivare in Iran via terra è un esperienza che consiglio a tutti ed è bellissimo vedere il paesaggio che muta e il miscuglio di Turchi e Iraniani che attraversano il confine.

        Alla fine una serie di avvenimenti mi ha portato a scegliere l’Iran. Al tempo lavoravo in una galleria d’arte nell’est di Londra la cui gallerista è un’iraniana espatriata. Lei mi ha descritto il suo paese in un modo stupendo, ma non può più tornarci perché non la farebbero più uscire. Io non avevo un piano ben preciso, ma sapevo che avrei preso un treno da Van (la città più a est della Turchia) e sarei arrivata a Teheran via terra. C’era sempre un piccolo ostacolo da superare per la buona riuscita del mio piano: per avere il visto per l’Iran non basta pagare, è necessaria una lettera di invito di una persona garante. Ma io avevo un contatto. Un amico di un’amica che avevo conosciuto su Facebook ha garantito per me e si offerto di ospitarmi, perciò dopo ventiquattro meravigliose ore di treno ero a Teheran. Arrivare in Iran via terra è un esperienza che consiglio a tutti ed è bellissimo vedere il paesaggio che muta e il miscuglio di Turchi e Iraniani che attraversano il confine. Infatti la Turchia è uno dei pochi paesi a cui cittadini iraniani hanno libero accesso, grazie all’antica amicizia tra i due paesi.

        È stato difficile far accettare a amici e familiari la tua decisione di partire? 

        Qui in Inghilterra no. Perché l’ambiente è molto cosmopolita. Tanti dei miei amici hanno a loro volta amici iraniani, quindi non ci vedevano niente di strano. In Italia invece mi hanno preso per pazza. Tutti mi chiedevano perché proprio l’Iran; mi dicevano che sarebbe stato pericoloso andare in treno e attraversare il confine. A dire la verità io mi sono sempre sentita al sicuro. La situazione in Medio Oriente era più tranquilla rispetto a tempi recenti. Si sentiva parlare di Daesh e di scontri nel Kurdistan iracheno. Ma niente di tutto ciò succedeva in Iran. La maggioranza degli iraniani sono sciiti, infatti anche le donne non devono essere completamente coperte. Ovviamente c’è chi lo fa, ma c’è anche tutto un mondo di donne che hanno lenti a contatto colorate, nasi rifatti, capelli biondi eccetera che sfoggiano a modo loro. La prima volta che ho messo l’hijab è stato nell’est della Turchia quando sono scesa dal treno al confine.

        Non sappiamo assolutamente niente. In Iran la cultura dei giovani è in tutti i sensi una subcultura. Perché i giovani iraniani fanno esattamente tutto quello che facciamo noi, ma lo fanno 5 o 6 metri sottoterra, nascosti nei cantieri, nei seminterrati, nelle fattorie. E non perché è figo farlo, ma perché altrimenti ti arrestano. Tutti i miei amici hanno Facebook, ma è vietato per legge insieme ad Instagram ed altri social network. Internet ha un filtro che ti impedisce di accedere molti siti, ma è stato trovato il modo per aggirarlo e avere comunque accesso al web. Vanno tutti pazzi per i social networks occidentali. Anche Couchsurfing è illegale, ma la gente lo fa lo stesso. Io ho conosciuto un ragazzo su Couchsurfing che ho poi incontrato a Shiraz. Anche se non mi ha potuto ospitare ha voluto conoscermi per parlare inglese e portarmi in giro.

        Quando ero a Teheran mi hanno raccontato di un parco in cui giovani amanti si incontrano in segreto

        In generale l’Iran non è un paese che promuove la coesione sociale. Per esempio i sessi a scuola sono separati fino all’università. E anche in città è difficile incontrarsi: un uomo e una donne che vanno in giro insieme devono essere parenti o sposati se non vogliono passare guai; anche riunirsi in più di cinque persone in luoghi pubblici desta subito l’allerta della polizia. Quando ero a Teheran mi hanno raccontato di un parco in cui giovani amanti si incontrano in segreto, ma lo fanno mentre girano in macchina per non attirare l’attenzione. Si scambiano i numeri abbassando il finestrino!

        Un’altra cosa interessante è che in Iran si vede un sacco di televisione americana e ci sono molti programmi per il pubblico all’estero. La mia amica gallerista lavora anche per Manoto.tv una televisione britannica che trasmette da Londra e che appunto offre programmi in Farsi per iraniani all’estero con usi e costumi occidentali.

        Pensi che sia possibile un graduale attenuamento delle politiche repressive per quanto riguarda la produzione culturale e musicale in Iran?

        Questa è una domanda difficile. Da quello che ho sentito c’è una forte voglia di cambiamento da parte dei giovani iraniani. Sono stanchi di politiche repressive che li costringono a nascondersi. Purtroppo non credo che la classe dirigente presente al momento permetterà questo cambiamento. Forse ci sarà un’ulteriore chiusura, forse serve solo un ricambio generazionale? Potrebbe anche succedere che niente cambi e che ci sia una fuga di cervelli come in tanti altri paesi. Sembra ci sia una tendenza per molti paesi medio-orientali a diventare ultra capitalisti e forse i giovani lo percepiscono sempre di più. Un amico si lamentava con me che molti giovani provenienti da famiglie benestanti pensano solo a rifarsi il naso, comprare macchine, vestiti e non mostrano nessun interesse nel voler cambiare l’Iran. Mentre coloro che hanno le idee e la voglia di cambiare le cose, sono scoraggiati dalla mancanza di risorse e supporto.

        L’Iran purtroppo non è un paese libero, è retto da un regime. E la cosa più sconvolgente è che la gente ha tanta voglia di vivere e nonostante il paese sia molto represso, è anche un paese felice. L’Iran va visto da molti punti di vista per essere compreso a pieno. Tante persone che ho conosciuto se ne vogliono andare e hanno un forte desiderio di cambiare il paese. Forse qualcosa cambierà tra una ventina d’anni, quando gli adolescenti di oggi che sono cresciuti con principi diversi da quelli che hanno animato la rivoluzione, diventeranno la classe dirigente. Chi sa che ne sarà dell’Iran tra vent’anni! E’ possibile farsi un idea attraverso i lavori di Newsha Tavakolian una fotoreporter e documentarista iraniana. Uno dei suoi ultimi progetti è diventato copertina del Times di recente, penso che il suo approccio sia molto interessante.

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        Photograph by Newsha Tavakolian—Magnum for TIME
        Tempo fa mi hai consigliato un bellissimo film che ho guardato con molto piacere, I Gatti Persiani di Bahman Ghobadi (2009). Il film è ambientato nella Teheran odierna e racconta la storia di due giovani musicisti alle prese con la terribile rigidità della legge locale. Girata senza autorizzazione, questa pellicola rappresenta una forte denuncia della forzata clandestinità di band e musicisti in Iran. Ogni scena racconta un aspetto diverso del panorama musicale underground iraniano, dall’indie rock al rap, all’heavy metal.
        Cosa ne pensi del film e quanto di ciò che viene raccontato hai personalmente vissuto durante il tuo viaggio?

        Il film è abbastanza veritiero, ritrae bene la realtà underground iraniana. Quando ero a Teheran sono stata a casa di amici del ragazzo che mi ospitava, un’insegnante di Francese e un musicista. Ci hanno offerto l’Arak un drink tipico dei paesi arabi, dell’erba da fumare e abbiamo passato la serata a chiacchierare e suonare. In Iran le feste in casa sono molto in voga, solitamente si tengono in seminterrati mentre i ragazzi che appartengono ai ceti più abbienti si trovano in location segrete fuori Teheran.

        Inoltre tutti sono molto creativi e vivono molto male il fatto che non possono esprimersi, talvolta nascondendosi anche dalla propria famiglia. Lo scenario descritto nel film è reale ma da turista non è possibile averne accesso, perché è una realtà veramente underground: è impossibile arrivarci a meno che non ci si venga portati da qualcuno del posto.

        Iran
        Foto tratte dal reportage Sar Zamin a cura di Giulia Frigieri; Copyright Giulia Frigieri
        Il tuo futuro ti riporterà in Iran?

        Assolutamente sì. Stanno accadendo molte cose interessanti in Iran, soprattutto relative allo sport. In particolare, Waves of Freedom è un organizzazione di volontariato no-profit e scuola di surf gestita da donne nella regione del Baluchestan, che ha l’obiettivo di promuovere l’empowerment e la libertà di giovani donne e bambine. Un’altro fatto interessante di cui però non si parla: in Iran c’è anche un’attiva scena snowboard and skiing , perché ci sono zone climatiche e località montane adattissime per questi sport. Quindi, sì, sicuramente tornerò in Iran.

        Voglio imparare il Farsi che è una lingua meravigliosa, perché in nessun’altra lingua al mondo ci sono dieci modi di dire grazie.


        Edited by Celine Angbeletchy

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          Stories

          EAST LONDON PT. 1 – N°8

           

          Parnell Road bus stop, Old Ford Road, London
          Parnell Road bus stop, Old Ford Road, London

          Cuore dell’East End londinese.

           Prendere il bus n°8 per percorrere il tratto Roman Road-Liverpool street riserva ogni giorno peculiari sorprese.

          Roman Road è situata esattamente a metà tra i residenziali sempreverdi confini di Victoria Park ed i modesti multietnici quartieri di Bow e Mile End.  Punto di contatto con la realtà per gli abitanti della residenziale ma auratica Hackney Wick, questa antica strada romana è uno dei luoghi in cui prendono vita le drammatiche contraddizioni e le antinomie culturali che rendono unico l’est di Londra.  Viverci comporta l’essere immersi in un insieme eterogeneo di persone, colori, tradizioni, luoghi, situazioni, culture in continuo movimento. Un costante divenire in cui le regole del gioco che influenzano le vite di milioni di persone sono dettate da esigenze prettamente economiche.

          Da pendolare abitante del quartiere percorro ogni giorno lo stesso breve ma intenso percorso e, curiosa, osservo gli usi e i costumi degli strani personaggi che popolano l’area. Per questo motivo ho voluto descrivere i luoghi, le atmosfere e le specie rare di questa giungla post-moderna che tanto mi affascina.

          9:12 AM – Parnell road

          Sonno, confusione, il sapore di Yorkshire tea ancora sulle labbra, mentre lascio Morfeo e Hackney Wick alle mie spalle. Sbircio l’8 in lontanza. Leggero e aggraziato come un lottatore di wrestling ubriaco, finalmente accosta. Salgo, “tocco” la mia Oyster e l’avventura inizia.

           

          9:16 AM – Old Ford road

          Importante via di comunicazione della Britannia romana, poi estesa in era vittoriana, Old Ford Road riassume in modo semplice e immediato la dualità dell’architettura e della composizione sociale dei quartieri londinesi: da un lato della strada sulle rive di Regent’s Canal si trovano lussuosi appartamenti perfetti per gli idealtipi giovani in carriera o nuove famiglie benestanti; dall’altro lato della strada council estates, quelle che in Italia chiamiamo case popolari. Dati i nuovi trend urbanistici che producono esclusione e marginalità tramite l’organizzazione settoriale e di classe del territorio, è naturale chiedersi come sia possibile che le residenze di persone appartenenti a classi sociali opposte, l’una medio alta e l’altra medio bassa, siano separate da qualche metro di asfalto. Perchè il prezzo delle case raddoppia, se non triplica, da una parte all’altra della strada? Il significato del fenomeno studiato come gentrificazione ci spiega il motivo di questa particolare geografia sociale. In breve, le case popolari di Old Ford Road saranno presto rimpiazzate da nuovi appartamenti destinati all’elité Londinese, sempre alla ricerca di nuovi lidi trendy da conquistare. La conseguenza di questo processo è una dittatura spaziale promossa dalle logiche economiche del mercato globale che sposta a proprio piacimento fasce di popolazione sul territorio come fossero pedine di un’immensa scacchiera virtuale. La riqualificazione del quartiere limitrofo Stratford per i giochi olimpici del 2012 e’ un esempio perfetto di questo processo di radicale trasformazione del territorio.

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          9:21 AM –Ford Road / Roman Road Market

          Lo storico, colorato mercato di Roman Road è un vero e proprio punto di incontro e di socialità per centinaia di abitanti dell’Est di Londra. Riuscire a raggiungere Liverpool street nei giorni pari della settimana può essere una vera impresa, in quanto la strada si riempie di persone e merci di ogni sorta.

          Ed, che da anni siede in quel punto preciso, nel solito angolo della solita strada, è un assiduo spettatore del brulicare generale nei giorni di mercato. Giacca e pantaloni neri, stivali a punta di pelle, una quantità eccessiva gel nei pochi capelli bianchi-tendenti-al-rossiccio rimasti. Con fare amichevole ma impacciato, saluta allegro ogni singolo passante.

          Se ci si chiede quali siano le caratteristiche che permettono di definire “underground” un’area urbana e i movimenti che da essa provengono, la soluzione più ovvia è camminare per le vie di un mercato locale. Il miscuglio di generazioni, costumi ed etnie produce un melting pot che evade dalle logiche di standardizzazione e omologazione imposte dalla società dei consumi. Il mercato di Roman Road informale, alternativo e diversificato, è un perfetto esempio di questo fenomeno.

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          9:32 AM Roman Road/Grove Road

          La stanchezza continua ad avere la meglio sul caos mattutino mentre rimbalzo impassibile al ritmo di dossi e manovre. Accostiamo di nuovo. Una bellissima donna africana di mezza età mi sorride e si siede davanti a me. Guardo fuori. L’ultima cosa che voglio in questo momento è iniziare una conversazione. Non voglio iniziare una conversazione.

          “How are you, darling?” – inizia la conversazione.

          Nonostante il mio evidente divertito imbarazzo e ovvia riluttanza a socializzare, la signora – eloquentissima – riesce a rifilarmi il biglietto da visita della chiesa locale di cui fa parte. Londra pullula, letteralmente, di chiese e congregazioni religiose di ogni tipo. Per fare un esempio a Hackney Wick, quartiere che ospita il maggior numero di artisti in tutta Europa, si trovano diverse chiese battiste come The Mountain of Fire and Miracles e Places of Worship International. Una di queste la New Bethel Revival Ministry International, ha un distaccamento persino a Vicenza. Quale entusiasmo ogni domenica nel vedere adulti e bambini vestiti di tutto punto sfilare per le strade di Hackney Wick mentre nel sottofondo i bassi nei warehouse ancora pompano dalla sera prima.

           

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          9:39 AM –  Bethnal Green

          Con grande sollievo la mia malcapitata interlocutrice è arrivata a destinazione. “Bye darling, take care. God bless.”

          Il mastodontico “8” continua il suo percorso verso ovest tra i vari ostacoli di percorso. Passiamo l’incrocio con Globe Road, come al solito, ammiro il Buddhist Centre e le caratteristiche case vittoriane ad esso adiacenti. Mi manca vivere qui. Bethnal Green è sicuramente uno dei quartieri più carini ed eleganti di tutto l’East London, perfetto per creatives sulla trentina o poco più pronti a metter su famiglia.

          Ed ecco che sale la signora Joanne, “tocca” il suo freedom pass e sistema il passeggino, mentre alcuni passeggeri sorridono a Charlie, un simpatico Westie bianco a bordo di esso.
          Joanne deve essere stata molto bella da giovane, ma gli anni e la città hanno avuto la meglio su di lei. Solitamente indossa una cappotto beige e dei pantaloni stampati di un turchese accecante. Affronta sicura la folla metropolitana, sguardo fisso nel vuoto e una lunga lista di cose da fare che instancabilmente continua a ripetere ad alta voce. Oggi Joanne viaggia solo per due fermate. Barnet Grove, le porte si piegano aprendosi come un origami animato. Mentre spinge Charlie giù dal bus, la sua tenerezza attira sguardi strani. Il mio infastidito animo mattutino pensa fottetevi.

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          9:45 –  Brick Lane

          Il volto della strada cambia mentre ci avviciniamo a destinazione. I council estates e i negozi di coloratissima frutta esotica iniziano a scomparire per lasciare spazio a ateliers, tattoo studios e appartamenti nuovissimi. Ding! Un ragazzo sulla ventina con una barba rossiccia così folta e lunga da far invidia persino al fedele Agrid prenota la fermata. Impossibile non notare il capellino griffato in coordinato con i sosfisticati jeans di salvage denim. In questa parte della città la creatività si esprime in tutte le sue più bizzarre – quanto omologate – forme. Brick Lane, insieme ai quartieri di Dalston e Shoredicth, unisce moda e tradizione  creando un epico e metaforico scontro tra titani. In questa via, situata nel peculiarissimo quartiere Banglatown, i numerosi ristoranti indiani si alternano a negozi di vestiti e accessori vintage, moschee, gallerie d’arte, pub e cafè. Questo tripudio di culture e stili di vita si anima ancora di più durante il mercato settimanale, luogo ideale in cui trascorrere vivaci, soleggiate domeniche.
          Mentre pesante l’8 riparte portandosi dietro carcassa e passeggeri, il capellino e la barba gigantesca del mio fugace compagno di viaggio scompaiono in lontananza.

          Questo slideshow richiede JavaScript.

           

          9:57 AM- Destinazione:

          Shoreditch High street, Primerose street, Liverpool street. Liverpool street!
          Scendo dal bus alla velocità della luce e come un giocatore di football americano in missione verso un touch down, attraverso la iper-affollata hall della stazione di Liverpool Street a forza di “excuse-me” e spallate.

          Tutto questo osservare per un attimo mi aveva distolta. Meglio sbrigarsi, Pimlico è lontana e devo partire per un altro viaggio, questa volta tutto underground.

          Bethnal Green Road, London | Foto di Celine Angbeletchy
          Bethnal Green Road/Shoreditch High Street, London

          |  Foto e concept di Celine Angbeletchy  |   The Factory   |