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FACTORY ASKS 0014 : LUISELLA BRENDA

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Nome artista 0014 : Luisella Brenda

BIO

Sono nata a Livorno, e già da piccola ho mostrato subito un forte interesse per l’arte, la pittura, il disegno, lo scarabocchiare tavoli, mobili e pareti, alche i miei genitori capirono che la faccenda non si sarebbe placata e quindi mi iscrissero all’ Istituto d’Arte di Pisa dove ho preso la specializzazione in pittura, subito dopo sono andata alla  Scuola Internazionale di Comics di Firenze frequentando il corso di illustrazione. Dal 2011 ho iniziato seriamente il mio percorso come professionista lavorando come illustratrice freelance. A tutt’oggi mi sto costruendo passo dopo passo, lavoro su commissione e intanto mi realizzo su vari progetti personali, e diverse collaborazioni. Perciò quando lavoro disegno e nel mio tempo libero…disegno!

Luisella                    Foto di Martina Ridondelli

01. Come hai intrapreso il tuo percorso artistico?

Ho iniziato sin da piccola ad avere passione e curiosità verso le arti visive, così la strada verso quel percorso è stata più che naturale: ho iniziato con l’Istituto d’Arte a Pisa, specializzandomi in pittura, dopodichè ho proseguito con la Scuola Internazionale di Comics a Firenze, stavolta specializzandomi in illustrazione.

02. A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

Mi ispiro un po’ a tutto ciò che mi circonda, agli illustratori e ai pittori che mi piacciono, alla fotografia, al cinema, alla normalissima tv, ai libri, alla mia immaginazione e alla realtà. La musica mi accompagna sempre mentre lavoro, ed è anch’essa fonte di ispirazione. Cerco di ricreare nelle mie illustrazioni ciò che ricavo anche da semplici momenti delle mie giornate e della mia vita in generale.

03. In quanto “artista” qual è la tua massima aspirazione?

Mi piacerebbe creare collezioni come sto facendo adesso con la serie delle Pin Up, da poter poi trasporre su vari supporti, dalla tela ad olio alla t-shirt. Vorrei che le mie creazioni esistessero non solo su carta, ma prendessero vita in varie forme e modi, insomma, vorrei mandare a spasso i miei personaggi!

04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

Ciò che caratterizza i miei lavori, almeno in questa fase, è certamente l’ironia. Essendo io in primis autoironica, è come se insegnassi ai miei personaggi a prendersi un po’ in giro.

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05. Che cosa vuol dire underground per te?

Tutto ciò che è indefinibile e che rimanda ad un concetto di nuovo, originale e creativo, con un occhio al progresso dell’immaginario nel suo insieme.

06. Che progetto hai portato al festival e cosa ha significato per te?

Ho portato la mia collezione di Pin Up tradotte nella mia chiave stilistica.  Mi ispiro alle Pin Up di Gil Elvgren, partendo da questo spunto creo il personaggio secondo la mia mano e la mia testa, cercando però di dargli una veste ironica, appunto.

07. Quanto sono importanti secondo te occasioni come il festival per promuovere i giovani creativi locali e cos’altro vorresti che venisse fatto in questo senso?

Credo siano molto importanti, è un modo per farsi conoscere e conoscere artisti che come te stanno facendo della loro passione un lavoro. Sono essenziali per gli scambi di idee che possono esserci e che sicuramente ci arricchiscono; conoscere diversi punti di vista e confrontarsi è fondamentale.

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|  The Factory | Luisella Brenda  |

“Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

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FACTORY ASKS 0013 : FRANCESCA PUCCI

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Nome artista 0013: Francesca Pucci

BIO

Francesca un po’ per scelta, un po’ per abitudine, nata nel freddo gennaio del 1983 e dove per usi e costumi sono rimasta. Da sempre innamorata dell’arte in tutte le sue forme, colleziono immagini e suoni, pane quotidiano in un mondo immaginario dal sapore a metà fra ”Dylan Dog” e ”Pretty in Pink”. Diplomata alla scuola di fotografia APAB a Firenze qualche anno fa, adesso collaboro con festival di cinema e riviste di musica. Inoltre gestisco laboratori artistici per bambini e ragazzi e mi piace farli provare a colorare non solo con i pennarelli, ma anche con quella polvere magica che è la fotografia.

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01. Come hai intrapreso questo percorso artistico?

Io da piccola preferivo colorare con i pennarelli. Coloravo tantissimo. E non doveva disturbarmi nessuno. Nemmeno papà, con quella macchina fotografica gigante. Da perfetto fotografo amatoriale mi invitava a posare troppo spesso per lui e io non sopportavo l’idea di starmene impalata. Poi qualcosa è cambiato: mi sono accorta di stare dalla parte sbagliata dell’obbiettivo. È successo che l’amore, i viaggi e soprattutto la musica mi hanno portato ad aver bisogno di documentare tutto quando questi non erano con me, inscatolare le emozioni per non perderle mai. E per saperle raccontare nel tempo.

02. A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

Senza dubbio la musica e tutto quello che la circonda sono il motore del mio lavoro artistico. Con lei tutti quegli artisti che hanno saputo raccontarla in maniera eccellente, che hanno portato le atmosfere dei backstage e dei palchi a portata di occhi. Fra gli altri A. Leibniz, P. Smith, A. Corbijn, R. Mapplethorpe, G. Harari, L. Ghirri.

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03. In quanto “artista” qual’è la tua massima aspirazione?

Regalare storie. Da vedere, da ascoltare, da raccontare.

04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

Attraverso la fotografia provo a scrivere storie musicate, forse una sottospecie di canzoni. Ho sempre voluto fare musica,ma non sono mai riuscita a salire su un palco. Con la fotografia ho trovato il modo di suonare , di rappresentare a mio modo la musica, di cantare con la luce. Un chiaro esempio è ”Sunday”, un mio progetto che nasce dall’esigenza di rappresentare la musica, così ho provato ad illustrare canzoni che raccontano di domeniche diverse, canzoni ascoltate oltre la sonorità e oltre le parole, descritte per quello che ti lasciano, per l’emozione che può diventare immagine. Ho riproposto ipotetiche copertine dei singoli da me scelti: con esse si ha un impatto visivo, la copertina veste la musica, diventa mezzo di comunicazione.

05. Che cosa vuol dire underground per te?

Sperimentare. Sempre innamorati di quello che stiamo facendo.

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“Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

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FACTORY ASKS 0012 : YOUNG FELIX

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Nome artista 0012 : Young Felix

BIO

Mi chiamo Marco Rossitto, in arte Young Felix. Sono cresciuto a Palermo, anzi per precisare a Bagheria. Mi sono approcciato alla musica fin da piccolo grazie allo studio del pianoforte; col tempo ho assecondato questa passione approfondendo altri generi e provando a suonare la chitarra con amici al liceo. Vecchi ricordi a pensarci adesso! Nel 2013 nasce la Sud Attitude CREW, il collettivo musicale con cui lavoro, che prima di essere un gruppo è una famiglia. Da un paio di anni mi sono avvicinato al video e alla fotografia, passioni che mi hanno portato a trasferirmi a Pisa; qui da qualche mese collaboro con Cino che oltre a essere il mio produttore mi accompagna anche sul palco.

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01. Come hai intrapreso il tuo percorso artistico?

Come dicevo sono sempre stato affascinato dall’ambiente musicale e persino da piccolo provavo a fare delle basi su cui poter cantare. Dato che tra il dire e il fare… Mi sono ritrovato a cercare i classici “Beat Instrumental” su Youtube per allenarmi fino a quando non sono arrivati i primi pezzi registrati e i primi progetti realizzati.

02. A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

Inizialmente mi sono ispirato alla scena palermitana, con artisti come Stokka & MadBuddy. Col tempo ho cominciato ad ascoltare sempre meno rap italiano per passare all’americano, e sinceramente ora provo ad ascoltare meno rap possibile. Per cercare ispirazione uso tutto quello che ho sotto gli occhi quotidianamente.

03. In quanto “artista” qual è la tua massima aspirazione?

Fare la mia musica senza nessun tipo di vincolo o compromesso. Assecondare la propria identità artistica penso sia il regalo migliore che un artista si possa fare.

04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

In ogni pezzo, in ogni video, tendo sempre a mettere qualcosa di mio, anche nascosto, ma che le persone che mi conoscono e vivono sanno capire. Anche la semplice sigla BC35 è uno di quei “messaggi” che vanno a rendere davvero miei i lavori. Diciamo che sfrutto Felix per dare spazio a una parte di me che normalmente tendo a tenere privata.

05. Che cosa vuol dire underground per te?

Cose fatte bene e con la voglia di condividerle ad altri con tutta la fatica e il lavoro che ci sta dietro.

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“Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

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FACTORY ASKS 0011: MOODBOARD

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Nome progetto 0011 : Moodboard

BIO

Lucrezia Cortopassi nasce a Pietrasanta il 19 febbraio del 1992. Nata con un background familiare di appassionati di arte, archeologia, arredamento e design non è difficile pensare che i suoi studi siano iniziati da un Liceo Artistico, il “Passaglia” di Lucca, e che siano finiti con una laurea in Disegno Industriale all’ISIA di Firenze. Durante questi anni la passione per la carta è sempre stata evidente: partendo dal progressivo accumulo di riviste, libri, flyer, poster e biglietti da visita fino al ripetitivo tentativo di immischiarsi in una nuova avventura editoriale.

Martina Toccafondi, fiorentina, nasce il 1 dicembre del 1988. La sua formazione è stata fin dall’inizio fortemente contaminata dai film adolescenziali degli anni ’80, dall’arte contemporanea, dallo stile parigino, dai polpettoni di saggi sugli impressionisti, dalle commedie del dopoguerra. Ma più di tutto dalle riviste, divorate, segnate, ritagliate (a volte anche lette). Da questo nasce la passione per l’accumulo di ritagli, fogli di carta, pezzi di texture. Ha iniziato studiando visual design (cos’altro sarebbe potuto essere?) prima all’Università degli Studi di Firenze e successivamente con un diploma specialistico all’Isia di Firenze. Da due anni lavora come freelance nella grafica per la moda e nell’editoria. Ma qualcosa bisognava pur fare con tutti quei ritagli.

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                                      PUM ART FEST / Moodboard Stand – foto di NICOL P.

01. Come e da dove è nata l’idea di fondare la vostra rivista?

Lucrezia: L’idea è nata da Martina qualche anno fa per gioco. La scorsa estate poi ci siamo come lette nel pensiero, è stato strano. Ci ha aiutato l’amore per l’editoria, quella cartacea che riempie le librerie e dove le immagini con il tempo sbiadiscono e dei gusti molto affini (quelli che contengono glitter, unicorni e immagini provocatorie si intende). Così durante un bel pranzetto di pesce nella piccola Atene della Versilia, Martina mi ha spiegato il progetto ed è stato amore a prima vista.

Martina: L’idea è nata all’inizio dalla mia collezione decennale di ritagli. Erano tutti lì davanti a me che mi guardavano come a chiedermi che senso avessero di essere lì. E così ho pensato che questa mania dovesse trovare uno sbocco. Se ispiravano me, perché non potevano ispirare anche qualcun altro? Ma era solo un barlume, l’idea vera e propria è nata in due. Non potevo farcela da sola.. e sapevo esattamente da chi andare!

02. Vi siete ispirate a qualche magazine già esistente? O in generale cosa vi guida nelle vostre
scelte editoriali?

Lucrezia: I magazine che ci ispirano sono tanti, come i siti e i blog. Essendo Moodboard una grande bacheca di ispirazioni è inevitabile che attingiamo da qualsiasi fonte ci passi sotto il naso, cercando di reinserirla in un contesto logico e in tema con lo stile che abbiamo scelto. Il web è pieno di spunti visti e rivisti sotto ogni forma e versione ma la nostra vera missione è far entrare in questo circolo qualche volto nuovo e di talento.

Martina: Certo le nostre fonti di ispirazione sono tantissime, dai magazine di arredamento chic ai blog trash. Credo che ciò che ci ispiri di più sia la ricerca di nuovi significati che nascono accostando elementi comuni, ordinari, che sembra non abbiano niente in comune tra loro. Cosa succede se accanto alla foto di un seno metto l’immagine di un paio di forbici? A cosa mi fa pensare? Da due oggetti con due significati distinti, ne nasce un terzo, un quarto e così via, a seconda dei legami che creiamo.

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03. Come finanziate la stampa dei vostri numeri e quali tecniche di stampa usate?

Lucrezia: L’editoria, specie se indipendente e specie se in Italia, non ha un’importanza rilevante. Quello che facciamo lo facciamo spinte prima di tutto da una grande passione e amore per questo lavoro. Il resto è tutto di tasca nostra, per ora chiaro, poi chissà! La stampa in tipografia “vecchio stile” è quella che ci ha affascinato di più ed è quella dove si ha anche un contatto diretto con l’operatore con il quale possiamo confrontarci e scambiarci consigli e idee.

Martina: Per adesso ci autofinanziamo. Questo è il grande problema comune di chi fa editoria indipendente. È difficilissimo trovare finanziatori per un progetto cartaceo. In fondo si dice in giro che la carta sia morta, sostituita dalle pagine web, dai blog, dai giornali online. Perciò la domanda di sempre è “perchè dovrei spendere per stampare qualcosa che potrei vedere su un display gratuitamente?” La nostra è una scommessa. Vogliamo allargare gli orizzonti fisici e non del concetto standard di rivista, reinventando la sua classica (spesso limitativa) suddivisione in pagine. Per visualizzare i contenuti su un sito si può scrollare, cliccare, ma ciò che uno schermo non ci permette è la visione di insieme. Moodboard mostra tutto il contenuto in un’unica grande pagina fisica davanti ai nostri occhi.

04. Qual è il messaggio principale che vorreste comunicare tramite la vostra zine?

Lucrezia: La nostra rivista, che in realtà è un grande poster di 100x140cm, una bacheca appunto, come riporta la definizione da dizionario di moodboard in fin dei conti, ha puramente uno scopo educativo all’immagine. Mi spiego meglio. Tutte le immagini contenute nel poster hanno una logica e il tema si sviluppa piega dopo piega. Il tema di base è uno ad ogni uscita ma le derivazioni che può avere sono tantissime. Per questo ci divertiamo a dividere le sottocategorie anche in base ai colori. L’effetto finale è davvero piacevole e stimolante, sia per un creativo che non!

Martina: L’ispirazione. L’interpretazione. Qualunque essa sia, non ce n’è una giusta o sbagliata. L’importante è lasciarsi stimolare, cercando nuovi accostamenti di immagini, di colori e significati.

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SHOP ONLINE : http://magazinemoodboard.bigcartel.com

05. Che cosa vuol dire underground per voi?

Permettersi il lusso di sperimentare. Uscire dagli schemi e scommettere contro chi ti dice “non si fa così”. E chi l’ha detto? Lavorando come grafica una delle cose più snervanti è scendere a compromessi con i clienti, con ciò che ti permettono o no di fare. Si può fare tutto, basta avere il coraggio di provarci. E questo tipo di contesto ti dà l’occasione di metterti alla prova. Per noi vuol dire essere liberi.

06. Quanto sono importanti secondo voi occasioni come il festival per promuovere i giovani creativi locali e cos’altro vorreste che venisse fatto in questo senso?

Lucrezia: Credo che occasioni come questa che ci è stata concessa siano molti importanti per far conoscere il proprio progetto, ma soprattutto le conoscenze che possono crearsi all’interno di uno scenario simile possono portare anche ad interessanti collaborazioni! Posso solo sperare che eventi simili si intensifichino su tutto il territorio cercando di coinvolgere più realtà possibili e artisticamente simili.

Martina: Sono molto importanti perché ti permettono, come ha detto Lucrezia, di conoscersi, influenzarsi a vicenda, creare nuove collaborazioni e nuovi sostenitori. Vorrei che ci fossero più occasioni del genere che non ci facciano sentire soli in mezzo al mare, contro vento!

 

 

segue :

Galleria fotografica di Nicol P.

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MOODBOARD By Nicol P. (Ac&m Art fest 15)

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| The Factory | Moodboard |

“Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista”

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FACTORY ASKS 0010 : PIERFRANCESCO BUONOMO

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Nome Artista 0010: Pierfrancesco Buonomo

BIO

Sono nato il 13 marzo 1993 a Roma. All’età di 6 anni sono andato a vivere a Lucca dove ho iniziato il mio percorso scolastico. Ho conseguito il diploma di liceo scientifico nel 2010, poi mi sono spostato a Milano dove ho iniziato a frequentare l’ACME, Accademia dei Media Europea, con indirizzo fumetto. Conseguirò la laurea a luglio di quest’anno seguito dal professor Pasquale Del Vecchio (relatore). I miei interessi principali sono legati al mondo dei fumetti, ne leggo un sacco e amo inventare e disegnare storie tutte mie. Il 24 dicembre 2015 è uscito un calendario in collaborazione con  il Centro Studi San Marco per il cinquantesimo anniversario di Lucca Comics & Games distribuito da “La Nazione” su tutta la provincia di Lucca. Mi piace molto collaborare alla costruzione di universi creati da altre menti, da poco sono in collaborazione con uno sceneggiatore, Edoardo Rohl, con il quale sto per presentare le prime tavole di un fumetto alla casa editrice Shockdom. Tra i miei interessi rientra anche la partecipazione a eventi e mostre in cui posso mostrare i miei lavori per ricevere giudizi costruttivi che mi portino ad una crescita personale nel mio campo

01. Come hai intrapreso il tuo percorso artistico?

Ho sempre amato disegnare. Alle medie mi sono accorto che avevo questa passione, purtroppo mi ha portato ad essere anche molto solo perché se tutti i miei compagni di classe uscivano a divertirsi io preferivo starmene alla mia scrivania a disegnare. Non ho mai detto nulla ai miei genitori fino alla quarta superiore, forse ho sbagliato ripensandoci adesso che mi sto per laureare. Non gli ho mai fatto vedere un disegno. Dall’inizio delle superiori in poi mi sono appassionato alla narrativa a fumetti, ne leggevo e ne leggo tutt’ora un sacco, in terza superiore mi piaceva talmente tanto leggere fumetti che mi sono chiesto come sarebbe stato se ne avessi creato uno tutto mio. In quarta superiore ho fatto “outing”, i miei genitori parlavano di volermi mandare alla facoltà di economia perché una volta concluso il ciclo di studi universitari sarei andato a lavorare presso lo studio di mio padre. Quando ho detto a mia madre che volevo intraprendere la carriera da fumettista mi ha guardato allibita, ma successivamente ha compreso che non era solo una passione ma un sogno. I miei genitori hanno dato qualsiasi cosa perché io riuscissi a coronare il mio obiettivo e tutto quello che ho raggiunto fino ad oggi lo devo principalmente a loro che sono stati, sono e saranno sempre i miei primi veri sostenitori. DREAM IT, WISH IT, DO IT.

02. A chi o a cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

Quando produco le mie “opere”, se di questo possiamo parlare, mi ispiro ad un sacco di cose. Per me non esiste ispirazione più grande di quella che ti può dare tutto quello che ti circonda.

03. In quanto artista qual è la tua massima aspirazione?

La mia massima aspirazione? Mangiare con i miei disegni.

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04. C’è un messaggio legato i tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

Il messaggio nei miei lavori dipende da cosa mi sento di comunicare in quel momento con quel determinato lavoro, non ho un messaggio di base che affiora in tutti.

05. Che cosa vuol dire per te underground?

Underground per me vuol dire completa libertà espressiva non vagliata da un mercato di gusti meticolosi riguardo il modello di bellezza corrente, vuol dire POSSIBILITA’, concetto che al giorno d’oggi in campo artistico non è molto presente. Penso che POSSIBILITA’ sia la parola che per me più descrive il concetto di Underground inteso in campo artistico.

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|  The Factory | Pierfrancesco Buonomo  |

“Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

Factory Asks

FACTORY ASKS 0009: DAVIDE BALDUZZI

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Nome Artista 0009: Davide Balduzzi

BIO

Mi chiamo Davide. Sono nato a Bergamo il 9 ottobre 1989 da madre napoletana e padre bergamasco. Ho vissuto dai 3 ai 6 anni nella Pampa argentina, tra gauchos e cavalli e ho ripreso il mio sentiero scolastico in Italia, a Bergamo.
Il 6 Ottobre 2014 io e la mia fidanzata, decidemmo di partire per l’estero.
La prima meta fu l’Australia, comprammo un camper, e per 8 mesi riuscimmo ad abbinare il viaggio al lavoro.
In seguito, iniziammo un lungo viaggio durato 4 mesi nel sud est asiatico, visitando molte isole dell’ Indonesia con i suoi vulcani e l’isola di Komodo; la penisola malese; l’ immensa foresta pluviale con i suoi animali selvaggi nel Borneo malese, passando poi per Singapore (la Svizzera d’oriente) e finendo nella vecchia Indocina: Laos, Cambogia, Vietnam e Thailandia con le innumerevoli risaie, cascate, templi e le affascinanti minoranze etniche.
Le modalità erano: zaino in spalla, street food, ostelli economici, ospiti da persone, ampio sorriso, cuore aperto alla vita e alla gente.
I mezzi erano: aerei, treni, navi e moltissime ore di pullman.

Passo alla prima domanda…

01. Come hai intrapreso il tuo percorso artistico?

Sebbene i miei studi non abbiano nulla a che vedere con l’arte, ho ricevuto influenze artistiche dai miei genitori: scultura, pittura, musica e fotografia.
Ho provato a dipingere, suonare la chitarra, il basso elettrico e le percussioni ma quando mio padre mi regalò la sua vecchia macchina fotografica analogica mi si aprì un mondo nuovo, un altro modo di vedere quello che mi circondava, posso dire.. uno stile di vita diverso da quello a cui ero abituato.
Notai da subito la compatibilità che aveva questo tipo d’arte visiva con il mio carattere, e la approfondii.

02.  A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

La creatività può essere un attitudine innata o semplicemente un osservare, analizzare e studiare, per rielaborare a proprio piacimento. Io faccio questo, studio le fotografie dei grandi fotografi o opere dei grandi pittori, metto tutto in un “cassettino” pronto a ripescarne il contenuto al momento del bisogno mischiandolo sempre al gusto personale ovviamente.

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03.  In quanto “artista” qual è la tua massima aspirazione?

Sebbene con l’avvento di internet e delle milioni fotocamere in circolazione possiamo comodamente vedere e conoscere realtà sociali differenti dalla nostra, tengo comunque a dare il mio contributo con l’offrire la mia visione delle cose. Tornando alla domanda..La mia massima aspirazione è continuare ad avere energia per viaggiare, per scoprire/scoprirmi ed emozionarmi, riuscendo allo stesso tempo a trasmettere tutto questo a chi osserva i miei lavori.

04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

C’è chi scopre il proprio stile da subito, chi lo trova dopo anni di ricerca. Io ci sto lavorando, mi piacerebbe molto se qualcuno potesse vedere le mie fotografie e riconoscere il mio occhio, il mio stile, ma questo non è una mia priorità. Penso solo ad impegnarmi per creare un collegamento diretto con la mia sensibilità e la mia attrezzatura. Il messaggio legato ai miei lavori rispecchia quello che la scena mi trasmette in quel preciso momento. Se riesco a ritrasmettere le emozioni da me provate, mi posso considerare soddisfatto.

05. Che cosa vuol dire underground per te?

Un movimento che vive e si sviluppa parallelamente alla cultura di massa.

06. Che progetto hai portato al festival e cosa ha significato per te?

Al festival ho portato una piccola raccolta del mio archivio fotografico scattato nel mio ultimo viaggio nel Sud-est Asiatico.

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07. Quanto sono importanti secondo te occasioni come il festival per promuovere i giovani creativi locali e cos’altro vorresti che venisse fatto in questo senso?

Complimenti e critiche sono entrambi importanti nella formazione artistica, ed è per questo che occasioni come il festival sono preziose, proprio perché danno la possibilità di avere contatto con il pubblico.
Sarebbe bello poter creare una rivista dedicata ai giovani emergenti.

| The Factory | Davide Balduzzi |

“Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

Matteo Zamagni Archivio

Matteo Zamagni

Music, Art, Dance in underground urban environments – m.a.d.

Arte Frattale ØØØØ

La storia di Matteo Zamagni, media artist italiano residente a Londra, è la riprova che quando si investe in giovani talenti non si fa mai cosa sbagliata

Matteo ha 23 anni, è nato Rimini ed è uno tra i 50 artisti scelti dal Barbican Centre per far parte del Fish Island Labs. Questo laboratorio artistico situato ad Hackney Wick, Londra, è nato dal connubio di forze tra il rinomato centro di produzione culturale e l’impresa sociale The Trampery. Il progetto offre uno spazio di lavoro e incontro ad artisti emergenti che hanno l’obiettivo di esplorare le infinite possibilità artistiche create dall’unione di arte e tecnologia, spaziando dalla scultura, al film editing, alla digital art.

All’interno del Fish Island Lab, Matteo ha scelto forse l’avanguardia artistica tra le più di nicchia all’interno del panorama delle arti multimediali: la realtà virtuale. Esplorando la matematica dei frattali e le più complesse tecniche di grafica 3D, Matteo è riuscito a trasformare in arte visuale la rappresentazione matematica di forme biologiche e naturali. Dopo 12 mesi di duro lavoro, gli artisti del Fish Island Lab hanno riassunto l’ethos della loro sperimentazione artistica e tecnologica nella mostra Interfaces, tenutasi nel prestigioso Barbican Centre. 

Fin da subito l’installazione Nature Abstraction, si è rivelata il fiore all’occhiello dell’esibizione, attirando l’attenzione di curiosi ed esperti.

Vedere la lunga e paziente fila di persone in attesa di abbandonarsi per qualche minuto alle meraviglie della realtà virtuale, ha suscitato in me ancora più interesse e curiosità nel lavoro di Matteo. Ma solo dopo aver indossato l’Oculus Rift ed essermi lasciata trasportare (perdendo l’equilibrio svariate volte) in un mondo altro, astratto, composto da forme aliene ma allo stesso tempo familiari, ho capito la vera portata dell’arte frattale e dell’esperienza artistica a 360° che essa può ricreare.

Ho incontrato Matteo per farmi raccontare com’è iniziato il suo percorso artistico, quali tecnologie utilizza e quali sono i suoi progetti futuri. Parlaci della tua esperienza all’interno del Fish Island Lab.

Condividere uno spazio con artisti dai simili interessi è stato incredibile. Abbiamo creato uno spazio di discussione molto interessante; per non parlare dei workshop, gli eventi e la visibilità che questa opportunità ha portato ad ognuno di noi.

Che ci dici della tua installazione Nature Abstraction per la mostra al Barbican Centre?

Interfaces è stata senza dubbio una delle esperienze più costruttive ed eccitanti che abbia mai vissuto fino ad ora. Ha reso possibile la creazione di una miriade di progetti sviluppati da un gruppo di artisti emergenti il cui scopo è esplorare la relazione tra arte, tecnologia e interazione con il pubblico, che non è più un osservatore “passivo” ma diventa parte integrante del processo artistico.

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Dopo un lungo periodo di produzione è stato incredibile vedere la mia installazione Nature Abstraction completa. Essendo un processo che parte da un’idea estremamente astratta, renderla concreta è una sensazione indescrivibile. E ancora più eccitante è stato osservare le reazioni del pubblico che entrava nel cubo luminoso e provava l’Oculus Rift. 

Di fatti l’installazione è progettata in modo da ricreare un ambiente astratto utilizzando una struttura a cubo sulle cui facce sono proiettati video di composti organici e biologici filmati al microscopio; a questi vengono uniti effetti visivi analogici (come rifrazione e riflessione, o altre proprietà fisiche della luce) che tramite l’utilizzo di un proiettore come sorgente vengono poi filmati nuovamente dalla videocamera. In questo modo l’osservatore è invitato ad entrare all’interno del cubo e ad indossare l’Oculus Rift per lasciarsi trasportare in mondi 3D surreali creati matematicamente.

Secondo me l’arte in questa nuova era digitale ha più che mai superato i suoi limiti. L’utilizzo di nuove tecnologie che facilitano l’interazione multi-sensoriale dell’osservatore permette all’artista di esprimersi pienamente a diversi livelli di significato. Ed e’ per questa ragione, maggiormente, che credo di essere entrato in questo campo.

Perché hai scelto la realtà virtuale e la matematica dei frattali?

Per Nature Abstraction volevo creare un ambiente in cui l’osservatore potesse “staccare la spina” per 10 minuti ed entrare in un mondo surreale composto da frattali 3D. Essenzialmente formule matematiche che riconducono visivamente a forme biologiche e architettoniche, in modo tale da aprire un varco sull’idea di una struttura invisibile che compone la realtà che viviamo ogni giorno. L’idea di usare Oculus Rift insieme ad altri apparecchi elettronici è servito ad amplificare l’esperienza per l’osservatore e renderlo parte integrante  dell’artwork in sé, stimolando sensi come vista e udito fino ad illudere la mente di trovarsi altrove. 

Quali sono le tecnologie che usi principalmente?

Gli strumenti variano sempre da progetto a progetto. Molti software sono disponibili online per quanto riguarda video editing, special effects, 3D, realtime graphics, photo-scanning ecc. Inoltre ci sono sensori di tipo uditivo che individuano determinate frequenze audio presenti nell’ambiente, oppure il Kinect o il Leap Motion che tracciano il movimento del corpo tramite sensori a raggi infrarossi. Alcuni di questi strumenti sono relativamente economici e già con essi si hanno infinite possibilità. Ma nel mio caso l’idea astratta è quella che nasce prima di tutto, dopodiché cerco gli strumenti adatti per svilupparla e realizzarla nel mondo fisico. 

Attualmente sto esplorando molti softwares 3D realtime e offline come Cinema4D e Houdini (utilizzato per il Visual FX anche in produzioni holliwoodiane), softwares specifici per frattali 3D, ed altri per vj-ing e projection mapping. Durante il mio percorso ho sempre notato una continua evoluzione nel modo in cui creo nuovi progetti. Credo sia dovuto al fatto che mi piace scoprire e imparare ad utilizzare nuovi strumenti per poi combinarli insieme in lavori futuri.

Come definisci la scena artistica in cui si inserisce il tuo lavoro?

Dal mio punto di vista : FANTASTICA.
Essendo un movimento digitale, nasce in primis da internet e dalla divulgazione di tante pratiche artistiche online. C’è un intero network di digital artists da tutto il mondo online radunati in vari gruppi, forum e piattaforme che discutono e condividono argomenti d’interesse. E’ così che ho iniziato e ho avuto la fortuna di incontrare di persona alcuni degli artisti da cui ho tratto più ispirazione.

Su cosa stai lavorando al momento e quali sono i tuoi progetti futuri?

Ho un po’ di progetti su cui sto lavorando al momento, sia di breve che lungo termine. Sto sviluppando una seconda installazione in cui lo scopo sarà quello di ricreare una esperienza extracorporea, stimolando più sensi possibile in modo da indurre la mente a pensare di essere altrove. Sono ancora nella fase iniziale di sviluppo e penso che ci vorrà almeno un anno per la realizzazione. 

Inoltre sto cercando di mettere insieme un collettivo online di digital artists. Sarà una piattaforma dove poter condividere idee, collaborare, ed esprimere concetti in relazione a mondi astrali e alla relazione tra scienza e spiritualità, un tema particolarmente caro a molti artisti sparsi nel mondo. Credo che questo movimento nasca da una necessità di condividere idee ed esprimersi attraverso l’arte infusa nella tecnologia.


Links:

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Wired interview

Anisegallery

Times Square Arts


Edited by Celine Angbeletchy

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    Factory Asks

    FACTORY ASKS 0008: RICCARDO BONUCCELLI

    askthepixel_faithNome artista 0008: Riccardo Bonuccelli

    BIO

    Fotografo e retoucher professionista Adobe Certified Expert. Riccardo è nato il primo gennaio del 1977, ha vissuto a Torino, Lucca, Bruxelles e nuovamente Lucca. Si laurea in informatica e coltiva un lunga esperienza di consulenza in grandi aziende internazionali. Da sempre amante dell’arte, nel 2009 decide che la fotografia sarebbe stata la sua professione e nel 2011 dà vita alla sua attività, askthepixel.net. Da allora fornisce servizi fotografici e di formazione, specializzandosi in ritratto, fotografia urbana e di architettura e in compositing artistico. Come insegnante ha lavorato con aziende locali e internazionali, agenzie di formazione, associazioni culturali e di settore e ultimamente con il liceo artistico di Lucca.

    01. Come hai intrapreso il tuo percorso artistico?

    Con una solida base tecnica alle spalle e da sempre incuriosito e affascinato dal forte potenziale comunicativo subliminale delle immagini, ho cominciato a studiare il valore simbolico dei colori e delle forme contenuti nella collezione dei Tarocchi di Marsiglia. Le figure riprodotte su queste carte rappresentano la sintesi della simbologia occidentale, che dal tardo medioevo valgono ancora oggi e che funzionano alla perfezione applicate a qualsiasi medium visivo. Utilizzarle è estremamente divertente e da là il percorso ha preso vita sua e non si è mai arrestato.

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    02. A chi o cosa ti ispiri per quanto riguarda i tuoi lavori?

    Ho qualche fotografo a cui faccio riferimento quando cerco ispirazione estetica ma il loro stile può anche non trasparire nei miei scatti, perché dall’ispirazione alla produzione il processo ha già alterato i tratti distintivi di questi autori. Potrei citare Sarah Moon per i ritratti e Gabriele Basilico per la fotografia urbana, ma la lista sarebbe lunghissima. L’ispirazione tematica invece la trovo nella lettura: nel tempo, passando di libro in libro – sempre seguendo il tema su cui vorrei lavorare – si formano collegamenti che mi portano alle soluzioni visive che finiranno nelle mie foto.

    03. In quanto artista qual è la tua massima aspirazione?

    Essere fonte di ispirazione. Non avrebbe senso creare arte se non ne generasse di nuova a sua volta, sarebbe vana o al massimo superflua.

    04. C’è un messaggio legato ai tuoi lavori senza il quale non li chiameresti tuoi?

    Sì, è l’invito a guardare oltre il primo velo, a provare a far parlare le immagini, a renderle vive.

    05. Che cosa vuol dire underground per te?

    In ambito artistico “Underground” è l’humous culturale che prepara la società ad accettare la prossima espressione estetica e concettuale, magari denigrata o considerata acerba ma che di fatto intimorisce perché mina l’attuale equilibrio o perché è semplicemente non compresa.askthepixel_balance

    06. Che progetto hai portato al festival e cosa ha significato per te?

    Il progetto che ho portato mi ha fatto riflettere più di quanto mi aspettassi su quanto profondo sia il tema affrontato, lo scattare fotografie da un dispositivo mobile. Quando sono apparse le prime fotocamere “embedded” nei telefoni cellulari già da tempo i sensori digitali avevano sostituito le pellicole nella maggior parte degli apparecchi di ripresa. Ma questo cambiamento ha aggiunto un ulteriore grado di astrazione dalla realtà: da quel giorno possiamo compiere un’azione che riguarda l’ambito visivo (fotografare) con uno strumento che abbiamo sempre usato per parlare e ascoltare (il telefono). L’immagine diventa anch’essa parte della conversazione (“embedded” anche loro) e fa parte integrante del suo senso: una frase non è più totalmente comprensibile senza una emoticon come una foto da sola non basta a definire un concetto. Si può definire una “fotografia aumentata”.

    07. Quanto sono importanti secondo te occasioni come il festival per promuovere i giovani creativi locali e cos’altro vorresti che venisse fatto in questo senso?

    Questi eventi sono fondamentali per la crescita della società. É molto raro che qualcuno si fermi a riflettere su ciò che ha davanti a sè quotidianamente o che esprima un concetto proprio, originale. Questa sorta di apatia, di inerzia spirituale, comunicativa ed espressiva deve essere controbilanciata da una risposta genuina di analisi creativa della realtà attraverso gli occhi e le mani di chiunque ne senta un onesto bisogno. L’arte si muove per osmosi, e bisogna respirarla perché passi da uomo a uomo, da generazione a generazione.

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    |  The Factory | Riccardo Bonuccelli  |

    “Nessun artista è stato maltrattato durante la realizzazione di questa intervista.”

     

     

    Art novels and stories

    Underground Iran

    Giovani, musica, cultura e libertà nell’Iran contemporaneo

    L’Iran è un paese del quale in Italia si sa poco o niente.

    Luoghi comuni e stereotipi ci fanno produrre una versione fasulla e semplificata della realtà, in cui tutto è bianco o nero e in cui ci sono paesi da visitare ed esplorare ed altri che non è neanche possibile menzionare.

    E quando il terrore mediatico è al suo picco più alto, è ancora più difficile pensare di poter far luce sugli aspetti più umani e positivi di culture tanto lontane e diverse dalla nostra.

    Nonostante ciò, ho voluto provarci lo stesso, ho incontrato e intervistato Giulia Frigieri, fotografa laureata in antropologia e media alla Goldsmiths University di Londra, che nel settembre 2014 ha fatto un lungo e affascinante viaggio in Iran.

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    Foto tratte dal reportage Sar Zamin a cura di Giulia Frigieri; Copyright Giulia Frigieri
    Parlaci del tuo viaggio in Iran. Perché hai sentito il bisogno di partire da sola per un avventura così particolare?

    Sono partita dopo esser stata in Marocco e in Libano. Visitare questi paesi ha fatto crescere in me il bisogno di esplorare altri paesi orientali e di conoscere più da vicino il mondo arabo. Sapevo che l’estate seguente sarei andata in Turchia con un’amica e così ho deciso che avrei continuato il mio viaggio spingendomi sempre di più nel Medio Oriente. All’inizio volevo andare in Armenia. Ovviamente in Siria non potevo andare, in Iraq neppure.

    Arrivare in Iran via terra è un esperienza che consiglio a tutti ed è bellissimo vedere il paesaggio che muta e il miscuglio di Turchi e Iraniani che attraversano il confine.

    Alla fine una serie di avvenimenti mi ha portato a scegliere l’Iran. Al tempo lavoravo in una galleria d’arte nell’est di Londra la cui gallerista è un’iraniana espatriata. Lei mi ha descritto il suo paese in un modo stupendo, ma non può più tornarci perché non la farebbero più uscire. Io non avevo un piano ben preciso, ma sapevo che avrei preso un treno da Van (la città più a est della Turchia) e sarei arrivata a Teheran via terra. C’era sempre un piccolo ostacolo da superare per la buona riuscita del mio piano: per avere il visto per l’Iran non basta pagare, è necessaria una lettera di invito di una persona garante. Ma io avevo un contatto. Un amico di un’amica che avevo conosciuto su Facebook ha garantito per me e si offerto di ospitarmi, perciò dopo ventiquattro meravigliose ore di treno ero a Teheran. Arrivare in Iran via terra è un esperienza che consiglio a tutti ed è bellissimo vedere il paesaggio che muta e il miscuglio di Turchi e Iraniani che attraversano il confine. Infatti la Turchia è uno dei pochi paesi a cui cittadini iraniani hanno libero accesso, grazie all’antica amicizia tra i due paesi.

    È stato difficile far accettare a amici e familiari la tua decisione di partire? 

    Qui in Inghilterra no. Perché l’ambiente è molto cosmopolita. Tanti dei miei amici hanno a loro volta amici iraniani, quindi non ci vedevano niente di strano. In Italia invece mi hanno preso per pazza. Tutti mi chiedevano perché proprio l’Iran; mi dicevano che sarebbe stato pericoloso andare in treno e attraversare il confine. A dire la verità io mi sono sempre sentita al sicuro. La situazione in Medio Oriente era più tranquilla rispetto a tempi recenti. Si sentiva parlare di Daesh e di scontri nel Kurdistan iracheno. Ma niente di tutto ciò succedeva in Iran. La maggioranza degli iraniani sono sciiti, infatti anche le donne non devono essere completamente coperte. Ovviamente c’è chi lo fa, ma c’è anche tutto un mondo di donne che hanno lenti a contatto colorate, nasi rifatti, capelli biondi eccetera che sfoggiano a modo loro. La prima volta che ho messo l’hijab è stato nell’est della Turchia quando sono scesa dal treno al confine.

    Non sappiamo assolutamente niente. In Iran la cultura dei giovani è in tutti i sensi una subcultura. Perché i giovani iraniani fanno esattamente tutto quello che facciamo noi, ma lo fanno 5 o 6 metri sottoterra, nascosti nei cantieri, nei seminterrati, nelle fattorie. E non perché è figo farlo, ma perché altrimenti ti arrestano. Tutti i miei amici hanno Facebook, ma è vietato per legge insieme ad Instagram ed altri social network. Internet ha un filtro che ti impedisce di accedere molti siti, ma è stato trovato il modo per aggirarlo e avere comunque accesso al web. Vanno tutti pazzi per i social networks occidentali. Anche Couchsurfing è illegale, ma la gente lo fa lo stesso. Io ho conosciuto un ragazzo su Couchsurfing che ho poi incontrato a Shiraz. Anche se non mi ha potuto ospitare ha voluto conoscermi per parlare inglese e portarmi in giro.

    Quando ero a Teheran mi hanno raccontato di un parco in cui giovani amanti si incontrano in segreto

    In generale l’Iran non è un paese che promuove la coesione sociale. Per esempio i sessi a scuola sono separati fino all’università. E anche in città è difficile incontrarsi: un uomo e una donne che vanno in giro insieme devono essere parenti o sposati se non vogliono passare guai; anche riunirsi in più di cinque persone in luoghi pubblici desta subito l’allerta della polizia. Quando ero a Teheran mi hanno raccontato di un parco in cui giovani amanti si incontrano in segreto, ma lo fanno mentre girano in macchina per non attirare l’attenzione. Si scambiano i numeri abbassando il finestrino!

    Un’altra cosa interessante è che in Iran si vede un sacco di televisione americana e ci sono molti programmi per il pubblico all’estero. La mia amica gallerista lavora anche per Manoto.tv una televisione britannica che trasmette da Londra e che appunto offre programmi in Farsi per iraniani all’estero con usi e costumi occidentali.

    Pensi che sia possibile un graduale attenuamento delle politiche repressive per quanto riguarda la produzione culturale e musicale in Iran?

    Questa è una domanda difficile. Da quello che ho sentito c’è una forte voglia di cambiamento da parte dei giovani iraniani. Sono stanchi di politiche repressive che li costringono a nascondersi. Purtroppo non credo che la classe dirigente presente al momento permetterà questo cambiamento. Forse ci sarà un’ulteriore chiusura, forse serve solo un ricambio generazionale? Potrebbe anche succedere che niente cambi e che ci sia una fuga di cervelli come in tanti altri paesi. Sembra ci sia una tendenza per molti paesi medio-orientali a diventare ultra capitalisti e forse i giovani lo percepiscono sempre di più. Un amico si lamentava con me che molti giovani provenienti da famiglie benestanti pensano solo a rifarsi il naso, comprare macchine, vestiti e non mostrano nessun interesse nel voler cambiare l’Iran. Mentre coloro che hanno le idee e la voglia di cambiare le cose, sono scoraggiati dalla mancanza di risorse e supporto.

    L’Iran purtroppo non è un paese libero, è retto da un regime. E la cosa più sconvolgente è che la gente ha tanta voglia di vivere e nonostante il paese sia molto represso, è anche un paese felice. L’Iran va visto da molti punti di vista per essere compreso a pieno. Tante persone che ho conosciuto se ne vogliono andare e hanno un forte desiderio di cambiare il paese. Forse qualcosa cambierà tra una ventina d’anni, quando gli adolescenti di oggi che sono cresciuti con principi diversi da quelli che hanno animato la rivoluzione, diventeranno la classe dirigente. Chi sa che ne sarà dell’Iran tra vent’anni! E’ possibile farsi un idea attraverso i lavori di Newsha Tavakolian una fotoreporter e documentarista iraniana. Uno dei suoi ultimi progetti è diventato copertina del Times di recente, penso che il suo approccio sia molto interessante.

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    Photograph by Newsha Tavakolian—Magnum for TIME
    Tempo fa mi hai consigliato un bellissimo film che ho guardato con molto piacere, I Gatti Persiani di Bahman Ghobadi (2009). Il film è ambientato nella Teheran odierna e racconta la storia di due giovani musicisti alle prese con la terribile rigidità della legge locale. Girata senza autorizzazione, questa pellicola rappresenta una forte denuncia della forzata clandestinità di band e musicisti in Iran. Ogni scena racconta un aspetto diverso del panorama musicale underground iraniano, dall’indie rock al rap, all’heavy metal.
    Cosa ne pensi del film e quanto di ciò che viene raccontato hai personalmente vissuto durante il tuo viaggio?

    Il film è abbastanza veritiero, ritrae bene la realtà underground iraniana. Quando ero a Teheran sono stata a casa di amici del ragazzo che mi ospitava, un’insegnante di Francese e un musicista. Ci hanno offerto l’Arak un drink tipico dei paesi arabi, dell’erba da fumare e abbiamo passato la serata a chiacchierare e suonare. In Iran le feste in casa sono molto in voga, solitamente si tengono in seminterrati mentre i ragazzi che appartengono ai ceti più abbienti si trovano in location segrete fuori Teheran.

    Inoltre tutti sono molto creativi e vivono molto male il fatto che non possono esprimersi, talvolta nascondendosi anche dalla propria famiglia. Lo scenario descritto nel film è reale ma da turista non è possibile averne accesso, perché è una realtà veramente underground: è impossibile arrivarci a meno che non ci si venga portati da qualcuno del posto.

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    Foto tratte dal reportage Sar Zamin a cura di Giulia Frigieri; Copyright Giulia Frigieri
    Il tuo futuro ti riporterà in Iran?

    Assolutamente sì. Stanno accadendo molte cose interessanti in Iran, soprattutto relative allo sport. In particolare, Waves of Freedom è un organizzazione di volontariato no-profit e scuola di surf gestita da donne nella regione del Baluchestan, che ha l’obiettivo di promuovere l’empowerment e la libertà di giovani donne e bambine. Un’altro fatto interessante di cui però non si parla: in Iran c’è anche un’attiva scena snowboard and skiing , perché ci sono zone climatiche e località montane adattissime per questi sport. Quindi, sì, sicuramente tornerò in Iran.

    Voglio imparare il Farsi che è una lingua meravigliosa, perché in nessun’altra lingua al mondo ci sono dieci modi di dire grazie.


    Edited by Celine Angbeletchy

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      Stories

      EAST LONDON PT. 1 – N°8

       

      Parnell Road bus stop, Old Ford Road, London
      Parnell Road bus stop, Old Ford Road, London

      Cuore dell’East End londinese.

       Prendere il bus n°8 per percorrere il tratto Roman Road-Liverpool street riserva ogni giorno peculiari sorprese.

      Roman Road è situata esattamente a metà tra i residenziali sempreverdi confini di Victoria Park ed i modesti multietnici quartieri di Bow e Mile End.  Punto di contatto con la realtà per gli abitanti della residenziale ma auratica Hackney Wick, questa antica strada romana è uno dei luoghi in cui prendono vita le drammatiche contraddizioni e le antinomie culturali che rendono unico l’est di Londra.  Viverci comporta l’essere immersi in un insieme eterogeneo di persone, colori, tradizioni, luoghi, situazioni, culture in continuo movimento. Un costante divenire in cui le regole del gioco che influenzano le vite di milioni di persone sono dettate da esigenze prettamente economiche.

      Da pendolare abitante del quartiere percorro ogni giorno lo stesso breve ma intenso percorso e, curiosa, osservo gli usi e i costumi degli strani personaggi che popolano l’area. Per questo motivo ho voluto descrivere i luoghi, le atmosfere e le specie rare di questa giungla post-moderna che tanto mi affascina.

      9:12 AM – Parnell road

      Sonno, confusione, il sapore di Yorkshire tea ancora sulle labbra, mentre lascio Morfeo e Hackney Wick alle mie spalle. Sbircio l’8 in lontanza. Leggero e aggraziato come un lottatore di wrestling ubriaco, finalmente accosta. Salgo, “tocco” la mia Oyster e l’avventura inizia.

       

      9:16 AM – Old Ford road

      Importante via di comunicazione della Britannia romana, poi estesa in era vittoriana, Old Ford Road riassume in modo semplice e immediato la dualità dell’architettura e della composizione sociale dei quartieri londinesi: da un lato della strada sulle rive di Regent’s Canal si trovano lussuosi appartamenti perfetti per gli idealtipi giovani in carriera o nuove famiglie benestanti; dall’altro lato della strada council estates, quelle che in Italia chiamiamo case popolari. Dati i nuovi trend urbanistici che producono esclusione e marginalità tramite l’organizzazione settoriale e di classe del territorio, è naturale chiedersi come sia possibile che le residenze di persone appartenenti a classi sociali opposte, l’una medio alta e l’altra medio bassa, siano separate da qualche metro di asfalto. Perchè il prezzo delle case raddoppia, se non triplica, da una parte all’altra della strada? Il significato del fenomeno studiato come gentrificazione ci spiega il motivo di questa particolare geografia sociale. In breve, le case popolari di Old Ford Road saranno presto rimpiazzate da nuovi appartamenti destinati all’elité Londinese, sempre alla ricerca di nuovi lidi trendy da conquistare. La conseguenza di questo processo è una dittatura spaziale promossa dalle logiche economiche del mercato globale che sposta a proprio piacimento fasce di popolazione sul territorio come fossero pedine di un’immensa scacchiera virtuale. La riqualificazione del quartiere limitrofo Stratford per i giochi olimpici del 2012 e’ un esempio perfetto di questo processo di radicale trasformazione del territorio.

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      9:21 AM –Ford Road / Roman Road Market

      Lo storico, colorato mercato di Roman Road è un vero e proprio punto di incontro e di socialità per centinaia di abitanti dell’Est di Londra. Riuscire a raggiungere Liverpool street nei giorni pari della settimana può essere una vera impresa, in quanto la strada si riempie di persone e merci di ogni sorta.

      Ed, che da anni siede in quel punto preciso, nel solito angolo della solita strada, è un assiduo spettatore del brulicare generale nei giorni di mercato. Giacca e pantaloni neri, stivali a punta di pelle, una quantità eccessiva gel nei pochi capelli bianchi-tendenti-al-rossiccio rimasti. Con fare amichevole ma impacciato, saluta allegro ogni singolo passante.

      Se ci si chiede quali siano le caratteristiche che permettono di definire “underground” un’area urbana e i movimenti che da essa provengono, la soluzione più ovvia è camminare per le vie di un mercato locale. Il miscuglio di generazioni, costumi ed etnie produce un melting pot che evade dalle logiche di standardizzazione e omologazione imposte dalla società dei consumi. Il mercato di Roman Road informale, alternativo e diversificato, è un perfetto esempio di questo fenomeno.

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      9:32 AM Roman Road/Grove Road

      La stanchezza continua ad avere la meglio sul caos mattutino mentre rimbalzo impassibile al ritmo di dossi e manovre. Accostiamo di nuovo. Una bellissima donna africana di mezza età mi sorride e si siede davanti a me. Guardo fuori. L’ultima cosa che voglio in questo momento è iniziare una conversazione. Non voglio iniziare una conversazione.

      “How are you, darling?” – inizia la conversazione.

      Nonostante il mio evidente divertito imbarazzo e ovvia riluttanza a socializzare, la signora – eloquentissima – riesce a rifilarmi il biglietto da visita della chiesa locale di cui fa parte. Londra pullula, letteralmente, di chiese e congregazioni religiose di ogni tipo. Per fare un esempio a Hackney Wick, quartiere che ospita il maggior numero di artisti in tutta Europa, si trovano diverse chiese battiste come The Mountain of Fire and Miracles e Places of Worship International. Una di queste la New Bethel Revival Ministry International, ha un distaccamento persino a Vicenza. Quale entusiasmo ogni domenica nel vedere adulti e bambini vestiti di tutto punto sfilare per le strade di Hackney Wick mentre nel sottofondo i bassi nei warehouse ancora pompano dalla sera prima.

       

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      9:39 AM –  Bethnal Green

      Con grande sollievo la mia malcapitata interlocutrice è arrivata a destinazione. “Bye darling, take care. God bless.”

      Il mastodontico “8” continua il suo percorso verso ovest tra i vari ostacoli di percorso. Passiamo l’incrocio con Globe Road, come al solito, ammiro il Buddhist Centre e le caratteristiche case vittoriane ad esso adiacenti. Mi manca vivere qui. Bethnal Green è sicuramente uno dei quartieri più carini ed eleganti di tutto l’East London, perfetto per creatives sulla trentina o poco più pronti a metter su famiglia.

      Ed ecco che sale la signora Joanne, “tocca” il suo freedom pass e sistema il passeggino, mentre alcuni passeggeri sorridono a Charlie, un simpatico Westie bianco a bordo di esso.
      Joanne deve essere stata molto bella da giovane, ma gli anni e la città hanno avuto la meglio su di lei. Solitamente indossa una cappotto beige e dei pantaloni stampati di un turchese accecante. Affronta sicura la folla metropolitana, sguardo fisso nel vuoto e una lunga lista di cose da fare che instancabilmente continua a ripetere ad alta voce. Oggi Joanne viaggia solo per due fermate. Barnet Grove, le porte si piegano aprendosi come un origami animato. Mentre spinge Charlie giù dal bus, la sua tenerezza attira sguardi strani. Il mio infastidito animo mattutino pensa fottetevi.

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      9:45 –  Brick Lane

      Il volto della strada cambia mentre ci avviciniamo a destinazione. I council estates e i negozi di coloratissima frutta esotica iniziano a scomparire per lasciare spazio a ateliers, tattoo studios e appartamenti nuovissimi. Ding! Un ragazzo sulla ventina con una barba rossiccia così folta e lunga da far invidia persino al fedele Agrid prenota la fermata. Impossibile non notare il capellino griffato in coordinato con i sosfisticati jeans di salvage denim. In questa parte della città la creatività si esprime in tutte le sue più bizzarre – quanto omologate – forme. Brick Lane, insieme ai quartieri di Dalston e Shoredicth, unisce moda e tradizione  creando un epico e metaforico scontro tra titani. In questa via, situata nel peculiarissimo quartiere Banglatown, i numerosi ristoranti indiani si alternano a negozi di vestiti e accessori vintage, moschee, gallerie d’arte, pub e cafè. Questo tripudio di culture e stili di vita si anima ancora di più durante il mercato settimanale, luogo ideale in cui trascorrere vivaci, soleggiate domeniche.
      Mentre pesante l’8 riparte portandosi dietro carcassa e passeggeri, il capellino e la barba gigantesca del mio fugace compagno di viaggio scompaiono in lontananza.

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      9:57 AM- Destinazione:

      Shoreditch High street, Primerose street, Liverpool street. Liverpool street!
      Scendo dal bus alla velocità della luce e come un giocatore di football americano in missione verso un touch down, attraverso la iper-affollata hall della stazione di Liverpool Street a forza di “excuse-me” e spallate.

      Tutto questo osservare per un attimo mi aveva distolta. Meglio sbrigarsi, Pimlico è lontana e devo partire per un altro viaggio, questa volta tutto underground.

      Bethnal Green Road, London | Foto di Celine Angbeletchy
      Bethnal Green Road/Shoreditch High Street, London

      |  Foto e concept di Celine Angbeletchy  |   The Factory   |